Condiscepoli di Agostino
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La tecnoscienza e la crisi ecologica

Il capitolo terzo dell’enciclica Laudato si’ porta come titolo “La radice umana della crisi ecologica”. Fondamentalmente vengono individuate e analizzate due radici velenose: il cattivo uso della tecnoscienza e l’antropologismo, cioè l’assolutizzazione della centralità dell’uomo, senza tenere sull’orizzonte Dio...

Parole chiave: Zenti Giuseppe (4), Parlandoci da cristiani (28), Vescovo (386), Enciclica (9), Papa (158)

Il capitolo terzo dell’enciclica Laudato si’ porta come titolo “La radice umana della crisi ecologica”. Fondamentalmente vengono individuate e analizzate due radici velenose: il cattivo uso della tecnoscienza e l’antropologismo, cioè l’assolutizzazione della centralità dell’uomo, senza tenere sull’orizzonte Dio.
Focalizziamo il tema della tecnoscienza in rapporto all’ecologia. Nel giro di due secoli siamo passati dalla macchina a vapore, all’informatica, al digitale, alla robotica, alle biotecnologie, alle nanotecnologie, di cui non possiamo non rallegrarci per l’incidenza che hanno sul progresso umano (cf 102-103). “Tuttavia non possiamo ignorare che l’energia nucleare, la biotecnologia […] ci offrono un tremendo potere. [...] Un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero. Mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene […]. In quali mani sta e in quali può giungere tanto potere?” (104). Purtroppo vi è in atto una tendenza ad identificare “ogni acquisto di potenza” come progresso e benessere, mentre l’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza (cf 105). Purtroppo, si è passati da una tecnologia che ha accompagnato e assecondato le possibilità offerte dalle cose, accogliendo quanto la natura offriva, come tendendo la mano, ad una tecnoscienza che tutto pretende dalla natura “estraendo tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà stessa […]. Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata […]. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a ‘spremerlo’ fino al limite e oltre il limite” (106). Non c’è dubbio che “gli effetti dell’applicazione di questo modello a tutta la realtà, umana e sociale, si constatano nel degrado dell’ambiente […]. Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere” (107).
Dopo aver precisato che il “paradigma tecnocratico è diventato dominante” (108) e che di fatto “la tecnica ha una tendenza a far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ferrea logica” (ivi), l’enciclica evidenzia il rapporto della tecnocrazia con l’economia: “L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione ad eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale” (109). Ormai prevale la convinzione che la tecnoscienza risolverà tutti i problemi dell’umanità e che “i problemi della fame e della miseria nel mondo si risolveranno semplicemente con la crescita del mercato. […] Nel frattempo, abbiamo una sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria disumanizzante” (ivi).
Né l’enciclica tace il fatto che la pretesa della tecnoscienza di risolvere tutti i problemi è fantascienza. Molti problemi dell’uomo vanno affrontati dalla filosofia, dall’etica sociale (cf 110). E la stessa cultura ecologica va nutrita principalmente da uno stile di vita e dalla spiritualità (cf 111). L’enciclica incoraggia i produttori che “optano per sistemi di produzione meno inquinanti, sostenendo un modello di vita, di felicità e di convivialità non consumistico” (112), segnale positivo questo unito ad altri che prelude lo sbocciar di una sorta di “ostinata resistenza di ciò che è autentico” (ivi). Purtroppo la gente è rassegnata, non crede più ad un futuro migliore, ad una tecnoscienza che equivale a progresso. Le stesse megastrutture e le case in serie, espressione della tecnica globalizzata, creano un senso di pesante noia e di vuoto, l’uomo si sta scavando la fossa di un vivere senza respiro e senza senso (cf 113).
Significativo l’appello ad una “coraggiosa rivoluzione culturale” (114). Evidentemente “nessuno vuol tornare all’epoca delle caverne, però è necessario rallentare la marcia […], raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane” (ivi).

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