Condiscepoli di Agostino
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Il senso del fuoco eterno come pena

Agostino ricorda che Gesù stesso ha parlato esplicitamente della pena del fuoco eterno: “È bene per te entrare nella vita monco che con due mani andare nella geenna, nel fuoco inestinguibile”...

Parole chiave: Sant'Agostino (185), La Città di Dio (66)

Agostino ricorda che Gesù stesso ha parlato esplicitamente della pena del fuoco eterno: “È bene per te entrare nella vita monco che con due mani andare nella geenna, nel fuoco inestinguibile” (De civ. Dei, XXI, 9.1; Mc 9,43). Si tratta solamente di “essere bruciati dal dolore dell’anima”? (De civ. Dei, XXI, 9.2); oppure evoca pene dell’anima e del corpo insieme, sicché “il corpo è bruciato dal fuoco e l’anima in un certo senso è corrosa dal verme della tristezza”? (Ivi). Agostino propende per questa seconda soluzione, appunto “perché nell’uomo sarà punita la colpa di essere vissuto secondo la carne e per questo giungerà alla seconda morte” (Ivi). Certo, la pena è davvero grave. Tuttavia, Agostino invita a riflettere sul fatto che solo Dio conosce la gravità della colpa commessa alle origini dell’umanità: “Quanto più l’uomo fruiva di Dio, con tanto maggior empietà ha abbandonato Dio e si è fatto degno di un male eterno, lui che distrusse in sé questo bene, che poteva essere eterno. Da qui ha avuto origine la massa universale dannata del genere umano” (De civ. Dei, XXI, 12).

Agostino completa il pensiero affermando che tutte le pene sono purificatrici, quelle nel tempo e quelle oltre il tempo “per coloro che si ravvedono” (De civ. Dei, XXI, 13). In ogni caso, precisa, “alcuni subiscono pene temporanee soltanto in questa vita, alcuni dopo la morte, altri prima e dopo, tuttavia prima dell’ultimo giudizio molto severo” (Ivi). Comunque, la vita è tutta una pena, benché, annota sulla base della propria esperienza, alcuni nella lunga vita non abbiano avuto nessuna malattia e abbiano goduto assoluta tranquillità (Cfr. De civ. Dei, XXI, 14). Ed elenca i maggiori castighi, cioè le pene più significative del vivere umano, compresa quella di una educazione, soprattutto scolastica, connessa con l’uso della verga. Ricorda poi, anticipando il Leopardi, che “questa vita (luce) inizia non con il sorriso ma con il pianto, premonizione profetica in qualche modo della serie di mali che ha iniziato, a sua insaputa” (Ivi), eco del libro della Sacra Scrittura: “Un giogo pesante grava sui figli di Adamo dal giorno della loro uscita dal grembo della loro madre fino al giorno del ritorno alla madre di tutti” (Ivi; Qo 40,1). Nel paragrafo successivo Agostino completa e approfondisce la questione della condizione esistenziale causata dal peccato originale: “Nel pesante giogo che è stato posto sopra i figli di Adamo dal giorno dell’uscita dal grembo della loro madre fino al giorno della sepoltura nel grembo della madre di tutti (la terra), anche questo male che lascia meravigliati si riscontra, quello di essere sobri e di comprendere che questa vita a partire da quel nefando peccato, che è stato perpetrato nel paradiso (terrestre), è stata fatta per noi soggetta a pena… Camminiamo ora nella speranza e, facendo progressi di giorno in giorno con lo spirito, mortifichiamo le opere della carne” (De civ. Dei, XXI, 15). Su questa situazione da disperazione ecco lo squarcio del cielo sull’umanità, crudamente definita massa di dannati: il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio divenuto figlio dell’uomo per liberarci dalla dannazione: “Infatti, l’unico Figlio di Dio per natura, per la sua misericordia si è fatto per noi figlio dell’uomo, perché noi figli dell’uomo per natura, per grazia mediante Lui diventassimo figli di Dio. Pur rimanendo Lui di certo immutabile, prese da noi la nostra natura, nella quale aveva preso noi sopra di sé. E, mentre conservava la sua divinità, si fece partecipe della nostra infermità. Questo, affinché noi, trasformati in meglio, con la partecipazione di Lui immortale e giusto, perdiamo il fatto che siamo peccatori e mortali e ciò che nella nostra natura aveva fatto di bene, riempito del sommo bene, lo conserviamo nella bontà della sua natura” (Ivi).

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