Condiscepoli di Agostino
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Il neopelagianesimo mina alla radice la santità

Da sempre, cioè fin dalle sue origini con Adamo ed Eva, l’uomo, lasciando briglia sciolta alla sua libertà, ha voluto dimenticare Dio, considerandolo insignificante agli effetti del senso del suo esistere. In tal modo, si è affidato alla sua ragione, dimenticando che la stessa ragione è dono di Dio...

Da sempre, cioè fin dalle sue origini con Adamo ed Eva, l’uomo, lasciando briglia sciolta alla sua libertà, ha voluto dimenticare Dio, considerandolo insignificante agli effetti del senso del suo esistere. In tal modo, si è affidato alla sua ragione, dimenticando che la stessa ragione è dono di Dio. Di qui la tendenza allo gnosticismo (il termine deriva da gnosis, cioè conoscenza), su cui il Papa si è soffermato nella sua Esortazione apostolica sulla santità: l’uomo si autorealizza seguendo la sua ragione e facendo proprie le conoscenze offerte dalla sua conoscenza, senza alcun riferimento alla Parola di Dio! Ma vi è una seconda sfida a Dio: l’uomo si autorealizza lasciandosi guidare e determinare dal suo libero arbitrio, senza fare appello alla grazia di Dio. L’iniziatore formale di questo indirizzo etico del vivere umano, che fa conto solo sulle risorse della natura umana, è stato un monaco irlandese, contemporaneo di Sant’Agostino. Ecco come papa Francesco parla dell’attuale tendenza al pelagianesimo con il suo senso di autosufficienza: “Il potere che gli gnostici attribuivano all’intelligenza, alcuni cominciarono ad attribuirlo alla volontà umana, allo sforzo personale. Così sorsero i pelagiani e i semipelagiani. Non era più l’intelligenza ad occupare il posto del mistero e della grazia, ma la volontà” (GE 48). Sta di fondo l’idea che l’uomo da solo è in grado di costruirsi una storia di civiltà, dimenticando la fragilità dell’uomo interiore come conseguenza del peccato originale e il fatto che l’uomo da solo non è in grado di fare ciò che dovrebbe fare (cfr. GE 49). Giustamente il Papa cita Sant’Agostino il quale insegnava che “Dio invita ‘a fare quello che puoi e a chiedere quello che non puoi’ o a dire umilmente al Signore «Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi»” (GE 49).
La radice di tutto sta nella superbia orgogliosa che si rifiuta di riconoscere i propri limiti e perciò ritiene superflua la grazia di Dio, il suo aiuto al momento opportuno, quando incombe la tentazione. E il Papa precisa: “La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini” (GE 50). Di conseguenza, come già aveva precisato sant’Agostino, non c’è contrasto tra la natura umana dotata da Dio del libero arbitrio, cioè della libertà, e la grazia. Natura e grazia convivono perché l’uomo possa realizzarsi in pienezza, come un essere bisognoso di salvezza, con il suo libero assenso. Ma “per poter essere perfetti, come a Lui piace, abbiamo bisogno di vivere umilmente alla sua presenza, avvolti nella sua gloria; abbiamo bisogno di camminare in unione con Lui riconoscendo il suo amore costante nella nostra vita” (GE 51). Di conseguenza, proprio perché il credente può contare sulla costante presenza di Dio che mai lo abbandona, “scompare l’angoscia della solitudine” (ivi). Allora si sperimenta la santità della vita nell’esperienza “che Dio abita in noi” (ivi). Il Papa però apporta subito più che una correzione una precisazione integrativa: “È meglio dire che noi abitiamo in Lui, che egli ci permette di vivere nella sua luce e nel suo amore” (ivi). Dunque, è corretto dire che Dio abita in noi e che noi abitiamo in Dio, in un circuito di inabitazione. Come a dire che di fatto Dio abita in noi, senza essere da noi racchiuso, perché noi abitiamo in Lui. Ed è proprio questo abitare di Dio in noi e di noi in Dio che rende possibile in noi il processo di santificazione: “In Lui veniamo santificati” (ivi).

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