Condiscepoli di Agostino
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I tre generi di vita nella Città di Dio nel tempo

Dopo aver ancora una volta precisato che il diventare cristiani non comporta il rifiuto dei costumi precedenti, se non sono in contrasto con la fede cristiana, Agostino affronta in modo splendido il tema dei tre generi di vita...

Parole chiave: La città di Dio (66), Sant'Agostino (187)

Dopo aver ancora una volta precisato che il diventare cristiani non comporta il rifiuto dei costumi precedenti, se non sono in contrasto con la fede cristiana, Agostino affronta in modo splendido il tema dei tre generi di vita: quello dedito alle attività anche manuali (definito negotium), quello libero dalle occupazioni per essere riservato alla contemplazione (definito otium) e quello composto da entrambi: “Non interessa per nulla a questa città con quale portamento o con quale costume di vita, se non è contro i precetti divini, ognuno segua questa fede con la quale si perviene a Dio. Per cui, quando diventano cristiani, non costringe nemmeno i filosofi a mutare il portamento o la consuetudine di vita, che per nulla impedisce la religione, ma richiede loro di rifiutare i falsi dogmi… Tra quei tre generi di vita, quello dedito agli studi, quello attivo e quello composto da entrambi, sebbene, salva la fede, ognuno possa in qualunque di essi condurre la sua vita e pervenire ai premi sempiterni, importa tuttavia che cosa si raggiunga con l’amore alla verità, che cosa sovrasti per dovere della carità. E nessuno dev’essere così dedito agli studi da non pensare all’utilità del prossimo nella stessa dedizione allo studio, e nemmeno così dedito all’attività da non cercare la contemplazione di Dio… Nell’attività non si deve amare l’onore in questa vita o il potere, poiché ogni cosa è vana sotto il sole, ma si deve amare l’attività stessa che si fa per lo stesso onore o potere, se è fatto con rettitudine e utilmente, cioè perché valga a quella salvezza dei sudditi che è secondo Dio. Per questo l’Apostolo dice: ‘Chi desidera l’episcopato, desidera una buona cosa’ (1 Tm 3,1). Volle esporre che cosa sia l’episcopato, poiché è nome di ufficio non di onore…  affinché non abbia a capire di essere vescovo chi ha amato presiedere, non essere di utilità. Pertanto nessuno sia distolto dalla passione di conoscere la verità… Per questo la carità (l’amore) della verità ricerca un tempo libero santo; la necessità della carità intraprende una attività giusta (otium sanctum quaerit caritas veritatis; negotium iustum suscipit necessitas caritatis). Se nessuno impone questo peso, ci si deve tenere liberi per impadronirsi della verità e per esaminare la verità; se invece ci viene imposto, si deve prenderselo sulle spalle per la necessità della carità; ma nemmeno così in ogni modo deve essere disertato il diletto della verità, perché non ci venga sottratta quella soavità e ci opprima questa necessità” (De civ. Dei, XIX, 19).

A modo di conclusione, per così dire, Agostino tenta di chiarire il rapporto tra pace nel tempo e pace nell’eternità: “Di conseguenza, poiché il sommo bene della città di Dio è la pace eterna e perfetta, non quella attraverso la quale transitano i mortali nascendo e morendo, ma quella nella quale rimangono immortali, senza sopportare assolutamente nulla di avverso, chi c’è che voglia negare o beatissima quella vita o al suo confronto non giudichi miserrima questa, che qui si compie, benché sia piena di qualsiasi bene dell’animo e del corpo e di cose esteriori?” (De civ. Dei, XIX, 20). Precisa Agostino il fatto che il credente, il quale tutto sa indirizzare alla vita nell’oltre, sperimenta una ricaduta di beatitudine anche in questa vita: “Tuttavia, chiunque la vive in modo da riferire il suo uso al fine di quella, che ama con grande ardore e spera con assoluta fedeltà, non assurdamente può essere detta beata anche ora, grazie a quella speranza piuttosto che a questa realtà. In verità, questa realtà senza speranza è una beatitudine falsa e una grande miseria” (Ivi).

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