Commento al Vangelo domenicale
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La pretesa di esclusività è estranea al Vangelo

Marco 9,38-43.45.47-48

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

Parole chiave: Vangelo della Domenica (290)
La pretesa di esclusività è estranea al Vangelo

La liturgia eucaristica della XXVI domenica del tempo ordinario prevede la proclamazione di un testo evangelico in cui sono omessi alcuni versetti che accentuano la sensazione di trovarsi davanti ad un brano composito in cui la configurazione di un tema unitario può non essere immediata.
Il contesto in cui irrompono in maniera inaspettata le parole dell’apostolo Giovanni è quello del cammino verso la città di Gerusalemme. Gesù e i Dodici stanno vivendo un momento non facile a causa dell’incomprensione che li avvolge. Come letto nelle precedenti domeniche, a seguito degli annunci della passione del Maestro, i discepoli mostrano di non essere in grado di capire in profondità quanto è stato loro rivelato. Pur percorrendo insieme la strada verso la città santa, tra il Maestro e i suoi sembra si stia consumando una frattura sempre più profonda.
Nel brano di questa domenica si nota come mentre Gesù esorta all’accoglienza e alla capacità di mettersi al servizio, i Dodici sembrano capaci di concentrarsi solo sulla vicenda di un uomo che, pur non appartenendo al loro gruppo, scaccia demoni nel nome di Cristo. Quello che agli occhi di Giovanni appare come una sorta di motivo di vanto, ossia la volontà di impedire all’estraneo di compiere esorcismi nel nome di Gesù, in realtà è un gesto che dimostra una assoluta incapacità di ascolto e comprensione. All’invito all’accoglienza che avevano udito poco prima quando Gesù aveva posto al centro dell’attenzione di tutti un bambino, i discepoli rispondono con un’azione escludente e di rifiuto. È Giovanni che pone la questione al Nazareno, ma nel suo rivolgersi a Lui egli utilizza la prima persona plurale, lasciando intendere di stare a parlare a nome di tutti i discepoli.
Lo zelo che palesa la reazione del discepolo fratello di Giacomo mostra senza dubbio il grande sentimento e la dedizione che lo legano al Maestro, ma tradisce al contempo una pretesa di esclusività che non appartiene alla logica evangelica. La tentazione di essere gli unici a poter invocare e usare il nome di Gesù come se fosse una prerogativa interdetta ad altri, che traspare dalle affermazioni di Giovanni, a ben vedere è la medesima che serpeggia anche in alcune realtà ecclesiali contemporanee. A volte il forte senso di appartenenza ad una comunità può sfociare nella convinzione che al di fuori di essa non ci possa essere nulla di buono o di giusto. Il rischio che si corre è quello di ritenersi i soli o i principali conoscitori e detentori del bene e della giustizia, creando di conseguenza divisioni e fazioni nel caso di difformità di vedute.
La risposta di Gesù non lascia spazio a dubbi: Egli non si sente minacciato da quanti, pur non facendo parte al gruppo dei Dodici, compiono il bene nel suo nome. L’appartenenza al novero dei discepoli chiamati non è un criterio decisivo, mentre è determinante il gesto che si realizza e il nome che ad esso si lega indissolubilmente. La logica del Nazareno non è mai stata escludente e nemmeno ha mai imposto un solo modo di poter vivere la sequela. Affermando «chi non è contro di noi è per noi» Gesù esorta a riconoscere che non siamo gli unici a compiere azioni di bene, ma che ci sono molti altri, benché diversi e sconosciuti a noi, che possono attuare i medesimi gesti. Gli altri non sono persone da cui guardarsi, ma possono rivelarsi testimoni di Cristo anche nei confronti di quanti si ritengono già tali.
Vivere l’appartenenza in maniera esclusiva ed escludente comporta il rischio di divenire ostacolo per l’esperienza di fede di altri. Quando il Nazareno ammonisce dallo scandalizzare i piccoli che si avvicinano a Lui, intende richiamare l’attenzione affinché ciascuno vigili sul proprio modo di agire (da qui il riferimento alle mani che se sono oggetto di scandalo sono da tagliare), di comportarsi (piedi) e sulle proprie relazioni (occhio) per non divenire un inciampo nel cammino vocazionale di quanti si sono accostati da poco all’esperienza di adesione a Cristo. L’aggettivo piccoli nel corso degli anni ha dato vita a diverse interpretazioni; ad oggi la maggior parte dei commentatori ritiene che con tale appellativo ci si riferisca a quanti vivono una condizione di fragilità e di debolezza nella loro iniziale e acerba esperienza di credenti.
Le parole di Gesù rispetto a ciò che dà scandalo sono forti ma rappresentano delle ammonizioni che non consentono compromessi: è necessario eliminare nettamente tutte le occasioni di male, anche a costo di azioni piuttosto radicali. Questo è l’incessante lavoro su se stessi che attende chiunque voglia dirsi cristiano.

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