Una giornata particolare
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L’emoji, quella faccina “telefonica” che ha una tradizione molto più datata

Praticamente tutti li usano, solo alcuni ne conoscono il nome, pochissimi sanno che anche essi hanno una Giornata mondiale. Sono gli emoji, ovvero le faccine e simbolini che inseriamo nei nostri messaggini per personalizzarli o enfatizzarli, a volte sostituendo completamente il testo: d’altronde l’occhiolino è una risposta subito evidente, così come è ben chiaro lo stato d’animo di chi invia una faccina con i fumi in testa o le lacrime che scendono dagli occhi.

Parole chiave: Emoji (1), Giornata mondiale (47), Luca Passarini (94)
L’emoji, quella faccina “telefonica” che ha una tradizione molto più datata

Praticamente tutti li usano, solo alcuni ne conoscono il nome, pochissimi sanno che anche essi hanno una Giornata mondiale. Sono gli emoji, ovvero le faccine e simbolini che inseriamo nei nostri messaggini per personalizzarli o enfatizzarli, a volte sostituendo completamente il testo: d’altronde l’occhiolino è una risposta subito evidente, così come è ben chiaro lo stato d’animo di chi invia una faccina con i fumi in testa o le lacrime che scendono dagli occhi.
La Giornata mondiale si celebra il 17 luglio perché è la data che compare abitualmente nell’emoji che indica il calendario e – secondo la tradizione – della nascita di questi “simboli pittografici” che mettono insieme innovazione e tradizione. In effetti sono eredi di una simbologia millenaria e, più nello specifico, di una storia grafica secolare, che ha come pilastri fondamentali “i due punti e parentesi chiusa” (faccina che sorride) stampato nel 1648 alla fine di un verso della poesia To fortune dell’inglese Robert Herrick e “il punto e virgola seguito dalla parentesi chiusa” (faccina che strizza l’occhio) presente nella trascrizione di un discorso di Abraham Lincoln pubblicata nel 1862 dal New York Times.
La seconda parte del XX secolo ha visto, anche in questa dimensione, una serie impressionante di novità (e di scontri). Nel 1963 il grafico statunitense Harvey Ross Ball – forse ispirato dalla felpa di una radio newyorkese – realizzò una faccia sorridente tutta gialla per conto di una compagnia d’assicurazioni intenzionata ad alzare il morale dei dipendenti. Fu pagato 45 dollari (affermò di averci lavorato solo 10 minuti!), vennero prodotte oltre 50 milioni di spillette, ma nessuno pensò di registrare il logo.
Lo fecero negli Stati Uniti i fratelli Bernard e Murray Spain, proprietari di una cartoleria a Philadelphia (1971) e in Francia il redattore Franklin Loufrani (1972), che usò il ribattezzato “smiley” per segnalare le buone notizie sul quotidiano France Soir. Lui stesso fondò la Smiley Company, che il figlio Nicolas ereditò nel 1996 dandone diffusione planetaria, anche grazie all’aggiunta di nuovi emoticon – così cominciavano ad essere conosciuti – con cui sperava di creare una lingua universale.
In questo modo si arriva alla fine del millennio con tante opportunità comunicative ma anche con una dura battaglia (alla faccia dei sorrisini!) tra le stampe degli Spain, dei Loufrani e – non c’è due senza tre – della Walmart, multinazionale della grande distribuzione, senza contare la neonata versione digitale per computer e cellulari.
Con un ulteriore passo – intestato tra il 1998 e il 1999 al giapponese Shigetaka Kurita – ecco gli emoji, che ogni anno diventano sempre più numerosi, curati e coinvolgenti, ma anche provocatori e divisivi. In attesa di altre novità, la tecnologia ci dice che già oggi sarebbero sufficienti gli emoji per manifestare e condividere tutte i pensieri e i sentimenti, ma: è un problema così grave se la nostra (sacra) fisicità non si è ancora fatta del tutto convinta?

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