Quelle pergamene e la triste storia di un intero popolo
Tra le cose preziose che la Biblioteca Capitolare custodisce, una mi ha sempre emozionato in maniera particolare. Un oggetto a prima vista umile, nascosto dentro una scatola di legno...
Tra le cose preziose che la Biblioteca Capitolare custodisce, una mi ha sempre emozionato in maniera particolare. Un oggetto a prima vista umile, nascosto dentro una scatola di legno. È un lungo rotolo di pergamene, legate ad arte tra loro, dal colore bruno depositato dal tempo. Ricordo l’emozione quando lo vidi per la prima volta. Scritto con impeccabili caratteri ebraici, avevo tra le mani la Torah, ossia il libro sacro degli ebrei, contenente la dottrina impartita da Mosè al popolo d’Israele, raccolta in quello che noi cristiani chiamiamo Pentateuco. Era la prima volta che sperimentavo, tenendo in mano quel rotolo, cosa volesse dire il Vangelo quando ci racconta di Gesù che, entrato in sinagoga, aveva preso il rotolo del Libro e lo aveva aperto per commentarlo ai suoi uditori.
Ma la sorpresa più grande fu apprendere come quell’oggetto sacro e prezioso era arrivato sulle sponde dell’Adige. Il 1943 e, in particolare il 23 gennaio di quell’anno, è passato alla storia per la crudezza di un inverno che aveva toccato i 40 sotto zero. Quel giorno, in particolare, un gruppo di alpini, sbandati e in ritirata, era riuscito a rompere la sacca dell’esercito russo, nella famosa battaglia di Nikolajewka, aprendosi un varco per tornare in Patria. Fu una ecatombe, che però consentì ai pochi reduci rimasti in vita di tornare a casa e raccontarci di quella folle spedizione voluta da Mussolini.
Tra questi anche un anonimo soldato veronese il quale, in quella scia di disperati, fece tappa in Ucraina, per una sosta di viaggio. Di lui non sappiamo nulla, ma sappiamo quello che ha portato. Nascosto dentro lo zaino, aveva infilato quel rotolo, scritto in una lingua strana, per lui insignificante. Non sappiamo in quale modo ne fosse venuto in possesso, sappiamo però che lui, prevedendo l’affare, aveva già deciso cosa ne avrebbe fatto al suo ritorno a Verona. Lo avrebbe portato da un fabbricante di tamburelli il quale, dietro adeguato compenso, avrebbe avuto preziosa materia prima per fabbricare strumenti da gioco per gli amanti di quello sport. La pergamena era perfettamente conservata, era molta e, soprattutto era robusta quanto bastava. Fortuna volle che il fabbricante fosse preso da scrupolo. Lo portò ai custodi della Biblioteca i quali, dietro compenso, provvidero a metterlo al sicuro, dando pace a quella tormentata tragedia di cui era simbolo.
Vivo questa storia con sempre identica emozione e amarezza, ogni volta che mostro questo cimelio ai visitatori. Avvolto tra la pergamena si nasconde il dramma di un popolo, ma anche l’odio di uomini e donne che, nei secoli, lo hanno perseguitato. Chiudo gli occhi e vedo sinagoghe in fiamme, rotoli e libri bruciati, case sventrate, fratelli e sorelle, piccoli e grandi, mandati al macello… mentre avverto intorno l’afrore dell’odio che, a dispetto della storia incapace di insegnare, cresce ancora oggi contro di loro. E qui non si tratta di entrare nel merito di una guerra tra terroristi di Hamas e la sproporzionata reazione di Israele.
È l’odio che striscia silenzioso come il batterio della peste, con i suoi monatti sghignazzanti, pronti con la carretta dei morti. Vedo case segnate con la stella di David, per indicare dove colpire, cimiteri ebraici devastati, croci uncinate, far capolino qua e là. È la storia di Caino, che non è mai morto, mentre faccio mie le parole di Paolo quando, nella Lettera ai Romani, parla dei suoi fratelli ebrei, dicendo: “Essi hanno l’adozione a figli e da loro proviene Cristo secondo la carne”.
I miei, i nostri fratelli.
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