Il Fatto di Bruno Fasani
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Dentro i piccoli gesti si gioca la salvezza degli altri e nostra

Mi ha molto colpito un’affermazione letta qualche tempo fa di cui non ricordo l’autore. Diceva: “In passato essere poveri era non possedere, non avere. In futuro sarà invece non appartenere. Per soccorrere il debole bisognerà, di conseguenza, collegarlo a delle reti”. Oggi le reti le abbiamo messe in piedi, ma troppa gente non appartiene ad alcuno...

Parole chiave: Il Fatto (417), Bruno Fasani (325)

Mi ha molto colpito un’affermazione letta qualche tempo fa di cui non ricordo l’autore. Diceva: “In passato essere poveri era non possedere, non avere. In futuro sarà invece non appartenere. Per soccorrere il debole bisognerà, di conseguenza, collegarlo a delle reti”. Oggi le reti le abbiamo messe in piedi, ma troppa gente non appartiene ad alcuno. Poveri di mezzi e più ancora di appartenenza, sepolti nei coni d’ombra dell’indifferenza. Penso a tanti anziani, ma anche a tutti quelli che mancano delle necessarie scaltrezze per vivere senza sopravvivere, dentro una società che premia l’abilità e la furbizia.
Rifletto con qualche amarezza, mentre mi arriva l’eco delle parole evangeliche che hanno chiuso l’anno liturgico, la scorsa domenica, mentre ci apprestiamo a vivere l’Avvento: «Venite a me benedetti… perché avevo fame… Vi dico che tutto quello che avete fatto a questi piccoli l’avete fatto a me».
Un pensiero che scomoda a prescindere dalla fede, per almeno due ragioni. La prima ci porta a pensare come i destini del mondo sarebbero diversi se tutti, cominciando da chi ha il potere, ma senza tralasciare nessuno di noi, imparassero a mettere sempre al centro i bisogni delle persone, anziché servirsene.
La seconda si traduce in una domanda: i piccoli di cui parla il Vangelo sono uomini, donne, ricchi, poveri, italiani, stranieri, sani, malati, bambini, giovani, vecchi, etero, omosessuali, cristiani, musulmani, ebrei...? Il testo non specifica. Caso mai rimanda ad un secondo quesito: tutti quelli che saranno giudicati sull’amore sono cattolici, ortodossi, protestanti e cristiani vari? O nel conto entrano anche induisti, ebrei, buddisti, musulmani... compresi coloro che dicono di non credere a nulla? Mi inoltro in queste domande, per dirmi che sono dentro ad una appartenenza umana che non ha confini. Non esiste lacrima e sofferenza al mondo di cui possa sentirmi estraneo e non c’è nessuno al mondo che possa dirsi estraneo a questo dovere di fare rete con chi è più fragile.
Ma c’è un ulteriore aspetto di questo Vangelo che prende ed inquieta, nel momento in cui lega inscindibilmente la salvezza a umilissimi gesti quotidiani. Scrive Silvano Petrosino che gli uomini hanno una vera passione per le maiuscole. Amore con la A maiuscola, Giustizia con la G maiuscola… Perfino la sprovveduta profe di lettere, tra l’ilarità della classe, additava i Promessi Sposi come romanzo dalla A maiuscola. Probabile lapsus freudiano per l’assenza di un amore, quello sì maiuscolo nei suoi sogni, dentro una non ancora rassegnata illibatezza. Sta di fatto che a forza di maiuscole forse abbiamo finito per credere che la salvezza dell’uomo passi dai piani alti di progetti culturali e grandi strategie partorite dai potenti, trascurando la piccolezza delle minuscole. Il Vangelo ci riporta dentro la ferialità dei piccoli gesti quotidiani. Scrive papa Francesco nella esortazione apostolica sulla santità, Gaudete et Exsultate: “La vita comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa o in qualunque altra, è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani. Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari. La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore dove i membri si prendono cura gli uni degli altri e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre”.
E il santo Carlo De Foucauld, parlando dell’apostolato della bontà, così si esprimeva: «Vedendomi, uno deve dire: perché è così buono? Se si chiedono perché sono dolce e buono, devo rispondere: perché sono al servizio di uno più buono di me, il mio maestro Gesù».

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