Ex Cathedra
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Quel giorno drammatico del rapimento di Moro

Ci sono date scolpite nella memoria collettiva, giorni in cui ognuno ricorda dov’era. Dal 16 marzo 1978, data del rapimento di Aldo Moro, sono passati 43 lunghi anni nel corso dei quali l’Italia e il mondo sono cambiati inesorabilmente...

Parole chiave: Aldo Moro (3), Ex Cathedra (34)

Ci sono date scolpite nella memoria collettiva, giorni in cui ognuno ricorda dov’era. Dal 16 marzo 1978, data del rapimento di Aldo Moro, sono passati 43 lunghi anni nel corso dei quali l’Italia e il mondo sono cambiati inesorabilmente. Quella mattina ero di turno al distributore di benzina di via Are 153 (a Pescantina, ndr), la nostra casa-bottega-officina-stazione di servizio: un centro di arrivi e partenze, un luogo non solo fisico, un punto di riferimento per molta gente. Da lì, negli anni ’50 papà Primo aveva fatto partire la motorizzazione a due ruote del paese e della Valpolicella fino alla prima nostra montagna, Monte, Cavalo, Mazzurega, Breonio. Lì si registravano arrivi e partenze eccellenti: un giorno arrivò anche Bartali, sceso dalla bicicletta, nel suo giro d’Italia per lanciare sul mercato le biciclette col suo marchio. Da lì passavano le grandi marche di moto e bici: Legnano, Bianchi, Torpado, Vespa, Morini, Benelli, Garelli, Motom, Caballero e tutta la schiera degli assemblatori emiliano-romagnoli che il “motur” ce l’avevano in testa: Negrini, Morini Franco, Malanca, Italjet. Un modo di crescere e di vivere con gli altri, continuando a fare le cose di tutti i giorni. Sul bancone ho preparato più di un esame.
La notizia del rapimento dell’onorevole Aldo Moro e dell’uccisione della sua scorta ad opera di un commando delle Brigate Rosse cadde quella mattina in un contesto del tutto ordinario, mentre ognuno stava facendo le cose di tutti i giorni. Mi ero laureato nel novembre del 1977 e mentre aspettavo qualche supplenza a scuola e anche la cartolina per il servizio militare che poi arrivò a luglio, mi davo da fare per aiutare in bottega o alla pompa di benzina. Ho fatto il benzinaio: allora c’era la miscela per i motorini che si doveva preparare con il dosatore per non sbagliare, dal tre al cinque per cento. Senza olio i motorini “grippavano” ed erano dolori. La televisione interruppe le trasmissioni e diede l’annuncio. Poi l’indimenticato Paolo Frajese andò sul posto e le immagini furono per tutti uno choc quando l’inviato Rai riprese ad altezza d’uomo quei poveri corpi degli uomini di scorta e i bossoli delle pallottole sparsi a terra. L’Italia intera di fronte a queste immagini e all’enormità della notizia che colpiva al cuore il progetto di una unione parlamentare delle due forze popolari della Dc e del Pci per un governo di unità nazionale, rimase sbigottita ed attonita. Cominciò lo stillicidio dei comunicati, le ricerche furono estese fuori Roma, la trattativa conobbe fasi alterne. Si formò il partito della fermezza e quello della trattativa: c’era in palio la vita di un uomo-simbolo, «di un uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico» come ebbe a dire papa Paolo VI nella sua preghiera accorata ai funerali.
Passarono 55 giorni, fino al ritrovamento, il 9 maggio, del cadavere di Moro nella Renault rossa, parcheggiata in via Caetani, a metà strada fra via delle Botteghe Oscure e piazza del Gesù, dove c’erano le sedi del Pci e della Dc. Seguirono imponenti funerali di Stato: impressionanti gli sguardi dei politici. La lacerazione prodotta era profonda. Non riesco a ripensare a quei giorni senza un dolore vivo che segnò l’ultima parte della mia giovinezza. A luglio arrivò la cartolina di precetto: Scuola di fanteria, Cesano di Roma, 92° Corso ufficiali. Fu uno strappo vero e, ironia della sorte, arrivai a Roma il 20 luglio di quell’anno quando ancora il ricordo di Moro era vivissimo. Se ne poteva parlare con testimoni involontari di quei giorni: i nostri sottotenenti del 91° corso, da allievi ufficiali, avevano fatto tutti ordine pubblico per Moro in giro per l’Italia.

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