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Il fu forte di Croce Bianca costruito dagli austriaci e demolito dagli italiani

di EMILIO BOARETTO
Aveva 12 cannoni, ospitava 150 soldati e 32 artiglieri. Poi... 

Il fu forte di Croce Bianca costruito dagli austriaci e demolito dagli italiani

di EMILIO BOARETTO
Parte tutto da quella mappa dell’Almagià del XV secolo: un ritratto cartografico di Verona nel 1460, con ponti, vie, paesi... tutti minuziosamente riportati su carta. Da lì nasce la curiosità di Davide Peccantini che ha da poco licenziato la sua ultima fatica intitolata Il forte Croce Bianca (Werk Strassoldo), Edizioni Zerotre, 58 pp.

L’indagine si sposta quattro secoli dopo la stesura della mappa (che però rimane un documento preziosissimo e basilare per capire il territorio veronese) e si inserisce nel filone degli studi sulla Verona asburgica, in particolare sui forti cittadini che furono eretti poco prima e durante le Guerre d’Indipendenza nel pieno dell’Ottocento. Un’operazione fortificatoria da attribuire al governatore militare del Regno Lombardo-Veneto, Josef Radetzky, colui che capì la centralità di Verona nell’asse del Brennero: la nostra città come “porta d’Italia”, insomma. Così, sotto le direttive del genio militare Franz von Scholl, Verona vedeva sorgere un triangolo di fortificazioni che muoveva da nord, con il Forte Parona (Werk Erzog Albrecht), passava da Chievo (Werk Kaiser Franz Josef) e si spingeva fino alla pianura con altri forti distribuiti tra San Massimo, Santa Lucia e Tomba-San Giacomo.

Nel libro di Peccantini si trovano dunque due capitoli dedicati rispettivamente al forte Spianata (Wallmoden) e al forte Croce Bianca (Strassoldo). Il primo, strategicamente meno importante, fu costruito nel 1848 con il compito di intensificare la difesa tra forte San Zeno e forte Procolo, proteggendo la spianà; ma, come ricorda Peccantini, “con la Terza Guerra d’indipendenza non fu nemmeno posto in armamento”. Il forte di maggior spessore, invece, fu proprio il forte Croce Bianca, costruito a partire dal 1850 e modificato nel 1859. Eretto su una pianta poligonale di lati sei, il Werk Strassoldo disponeva di ben dodici bocche da fuoco e poteva essere presidiato da 150 soldati e 32 artiglieri. Con la Terza Guerra d’indipendenza la portata bellica del forte aumentò fino a contenere dieci cannoni e due obici (un’arma da fuoco d’artiglieria a metà tra un cannone e un mortaio), con riserve di polveri che raggiungevano quasi i 23mila chili. Il forte prese il nome dal conte Giulio Cesare Strassoldo-Grafenberg, dal 1838 comandante titolare del 26° Reggimento di fanteria di linea e protagonista di uno scontro armato con un esercito ridotto a poco più di 2mila uomini a Santa Lucia. Erano gli anni a cavallo della Prima Guerra d’indipendenza. Ancora una volta, come si può apprezzare dagli altri studi condotti da Peccantini, è interessante notare quale sia stato il lavoro di conservazione (o meglio, non-conservazione) di queste infrastrutture.

Il forte Wallmoden, ricorda lo studioso veronese, fu spianato negli anni Settanta dell’Ottocento e fino agli anni Trenta del Novecento la zona non fu urbanizzata; il forte Croce Bianca fu invece fatto esplodere alla fine della Seconda Guerra mondiale e poi demolito definitivamente poco prima degli anni Cinquanta. Del forte rimangono ancora tracce nelle case di via Monte Crocetta che vennero costruite con le pietre di recupero della fortificazione abbattuta; nel campanile di Chievo (progettato e innalzato nel 1954); altre ancora nel più prestigioso Palazzo Barbieri. Pablo Picasso diceva che “ogni atto di creazione è, prima di tutto, un atto di distruzione” e durante ogni secolo della nostra storia abbiamo distrutto e ricreato a seconda delle esigenze del momento. All’epoca dell’abbattimento del forte Croce Bianca c’era la necessità di dare un lavoro e un alloggio ai disoccupati, agli sfollati, a chi la guerra aveva tolto tanto, se non tutto; ora i tempi sono cambiati, e bene lo evidenzia anche Peccantini in conclusione del suo libro: oggi si distrugge per fare posto alle grandi infrastrutture, a Tav, trafori, mobilità “sostenibile”, con un occhio – si spera – alla conservazione di certi patrimoni storico-artistici. Staremo a vedere cosa scriveranno di noi tra cent’anni. 

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