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La percezione di vivere in un’Italia un po’ sbagliata

Scopriamo un Paese in cui la percezione (negativa) delle cose sovrasta la realtà e il ragionamento. Un’Italia che – rivela l’Istat – ha come vere spade di Damocle sulla testa l’enorme debito pubblico e la bomba demografica

Parole chiave: Percezione (1), Ripresa (17), Povertà (38), Istat (4)
Sagoma dell'Italia tratteggiata su una folla di persone

Gli stranieri? Sono svariati milioni, anzi metà della popolazione. La disoccupazione? Spaventosa. Lo stato delle cose? Terribile. Questo emerge dalle parole degli italiani che gli istituti demoscopici hanno intervistato per capire come la pensano. Scoprendo un Paese in cui la percezione (negativa) delle cose sovrasta la realtà e il ragionamento. Un’Italia che – rivela l’Istat – ha come vere spade di Damocle sulla testa l’enorme debito pubblico e la bomba demografica che è già esplosa: la popolazione invecchia, le nascite calano, i consumi pure. Magari anche per quella paura che ci spinge a mettere fieno in cascina impauriti dal presente, terrorizzati dal futuro.

La percezione di una Penisola che non esiste
Siamo il popolo i cui convincimenti sono i più lontani dalla realtà. Come mai?
Ma quante Italie ci sono? No, non è la domanda senza senso che può sorgere dopo un colpo di calore estivo e dinnanzi alla quale l’interlocutore può legittimamente sbarrare gli occhi allucinato; ma è l’interrogativo che suscita la distinzione tra la realtà italiana presentata sulla base di dati oggettivi come quelli che periodicamente fornisce l’Istat (l’Istituto nazionale di statistica) e quella che invece è la percezione dei cittadini, colta da ricerche e sondaggi di opinione. Percezione che invece è molto diversa, assai più negativa e svalutativa.
Lo sappiamo e lo sperimentiamo tutti i giorni: il nostro è un Paese che avanza tra luci e ombre. Tuttavia i cittadini tendono sempre più a una lettura alterata, distorta. Di questo si è parlato al Meeting di Rimini nel corso di un convegno dal titolo “L’Italia ce la farà? Numeri alla prova” con due relatori di prim’ordine: il prof. Gian Carlo Blangiardo, ordinario di Demografia all’Università di Milano-Bicocca e presidente dell’Istat e il prof. Nando Pagnoncelli, noto sondaggista, amministratore delegato di Ipsos Italia, docente di Analisi della pubblica opinione all’Università Cattolica di Milano. Ebbene, Pagnoncelli ha evidenziato che a partire dal 2014, anno di inizio della ricerca svolta in 14 Paesi, e anche oggi analizzando più di cento indicatori, «l’Italia è al primo posto nella distanza tra percezione e realtà». Ora non si tratta di avere un atteggiamento ottimistico o pessimistico, ma di essere realisti, di non dilatare la portata dei fenomeni. È necessario quindi da parte di chi, come noi, fa informazione, raccontare in modo migliore il nostro Paese, non per edulcorare il quadro, ma perché emergano anche le tante realtà positive che ci sono e spesso procedono sottotraccia, senza fare notizia. Purtroppo è ancora in auge l’antico adagio secondo cui fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce o, se preferite, il detto che una buona notizia non è una notizia (good news, no news). Ma anche noi cittadini italiani, iper stimolati in campo comunicativo, con tanti strumenti a disposizione, troppo spesso ci fermiamo alla superficie, all’aspetto emotivo dei fatti. Certo, l’approfondimento domanda tempo, richiede una pluralità di strumenti affidabili e più o meno costosi; il confronto con chi non la pensa come noi è sempre impegnativo, preferiamo ascoltare chi “ci dà ragione”, chi conferma le nostre precomprensioni, giuste o sbagliate che siano. E in questo modo rischiamo di contribuire a crearci “la penisola che non c’è”.
Alberto Margoni

Il vero macigno demografico «ma l’Italia ce la farà»
Blangiardo (Istat): «Impietosi i numeri di nascite e consumi»

Se in ambito economico il quadro italiano è fatto da luci e ombre, in quello demografico predominano le seconde in un contesto caratterizzato da culle vuote, o quasi. Sono stati questi due punti centrali a venire illustrati e analizzati dal prof. Gian Carlo Blangiardo, demografo e, dal febbraio scorso, presidente dell’Istat. In economia si assiste a una crescita debole e frammentata in un contesto internazionale contrassegnato da un clima di incertezza. Se l’indebitamento netto si è ridotto, il rapporto tra debito pubblico e Pil al 132,2% «è un segnale di fragilità della nostra economia». L’occupazione invece è tornata ai livelli pre-crisi (tasso di disoccupazione sotto il 10% nell’ultimo mese), anche se gli occupati sono cresciuti al Nord e principalmente nelle professioni qualificate, segno che «la formazione, la capacità, la competenza in qualche modo premiano», ha osservato Blangiardo. Le imprese che vanno meglio «sono quelle che hanno la capacità di rinnovarsi, di valorizzare il capitale umano». Il Paese ha una ricchezza enorme, costituita dal patrimonio culturale e ambientale che andrebbe valorizzato sempre più e meglio. Quanto alle prospettive, a prescindere se il Pil crescerà nel 2019 dello 0,3% o dello 0,1%, il docente universitario rimane cauto: «Diciamo che c’è una possibile lieve crescita». Diversa e pesante è la situazione demografica: tra il 2008 e il 2018 i nati sono diminuiti di 138mila unità (da 577mila a 439mila) e nel primo trimestre di quest’anno le cose sono andate pure peggio: -2% rispetto all’anno scorso quando è stato toccato il record della più bassa natalità di sempre. Il saldo naturale (differenza tra numero dei nati e dei morti) è negativo di circa 200mila unità. Aumenta la durata della vita media, crescono gli ultraottantenni, novantenni e centenari. Per quanto concerne i giovani, si spostano in là le scelte della vita: «Ci si sposa più tardi, si aspetta a mettere al mondo il primo figlio, poi spesso non c’è “lo spazio” per fare il secondo». Il presidente dell’Istat ha messo in luce la relazione stretta che sussiste tra economia e demografia: «Da quattro anni la popolazione italiana diminuisce. Le unità di consumo (cioè il potenziale di consumo, ndr) sono cresciute fino a un certo punto, poi si sono stabilizzate. Negli ultimi anni ci lamentiamo dell’insufficiente spesa delle famiglie che possa trascinare la domanda e quindi la crescita. Ebbene, la popolazione è diminuita in termini numerici ma non in maniera drammatica in quanto si è aggiunta una forte componente di presenza straniera, la quale per vari motivi ha probabilmente una propensione e una qualità di consumo più basse rispetto alla popolazione italiana». E le prospettive future delle unità di consumo non fanno intravvedere inversioni di tendenza. Per non parlare del fatto che è pure destinata a ridursi la popolazione in età lavorativa. Se questa è la situazione oggi, una domanda sul domani viene da porsela: l’Italia ce la farà? «Ci sono stati anni nel nostro Paese in cui l’inflazione era al 20% – ha argomentato il demografo –. La gente prendeva lo stipendio che non bastava più a comprare le cose che acquistava prima. Per non parlare del fatto che qualcuno veniva ammazzato per strada. Insomma, c’erano aspetti più problematici dell’inflazione. Ebbene, gli anni Settanta li abbiamo superati, ne siamo venuti fuori. Se ce l’abbiamo fatta allora, perché non dovremmo farcela adesso? Non è peccare di ottimismo, è realismo. Questi sono dati veri. Io non ho una risposta positiva o negativa alla domanda se l’Italia ce la farà. Io dico: è possibile. E se noi crediamo che una cosa è possibile, sono convinto che magari riusciamo anche a ottenerla».
A. Mar.

Italiani popolo di pessimisti fortemente influenzati da chi dipinge tutto di nero
Gli immigrati? Un’orda. I disoccupati? Di più. E pure i diabetici...

Pagnoncelli x sito

Chi l’avrebbe mai detto che gli italiani sono un popolo che, anziché alleviare i problemi, prenderli con filosofia, invece si lascia condizionare dal pessimismo che porta non solo ad ingigantire le questioni, ma ancor più ad accentuare gli aspetti negativi rispetto a quello che è il dato oggettivo? Eppure quando cinque anni fa in 14 Paesi si iniziò una ricerca per misurare la distanza tra la realtà espressa dalle statistiche ufficiali e la percezione dalla gente, emerse che proprio l’Italia era al primo posto. Il sondaggista Nando Pagnoncelli, amministratore delegato di Ipsos Italia, ha portato al Meeting di Rimini alcuni esempi. Sulla presenza degli stranieri nel nostro Paese, pari nel 2014 al 7%, la risposta media del campione di mille intervistati era: 30%. Le persone con più di 65 anni? 49%, cioè un italiano su due (sono invece poco più del 22% della popolazione). I disoccupati? Il 48%, anziché il 12% quale era il tasso di disoccupazione. Pure sui diabetici (35% anziché il 5% secondo l’Oms) ci sarebbe poco da stare allegri. Ma anche l’Eurobarometro ha costatato «l’attitudine italiana a dilatare la portata dei fenomeni» quando ha chiesto se nella penisola sono presenti più immigrati clandestini o regolari. La risposta del 47% dei nostri connazionali è che sono in numero maggiore gli irregolari, mentre solo il 16% pensa che siano di più gli stranieri regolari. «Dietro alcuni di questi temi – segnala Pagnoncelli – c’è tutta una serie di implicazioni che hanno a che fare con le paure dei cittadini e molto spesso anche con il rilievo mediatico che viene dato a queste questioni, come pure con la risposta della politica che in molti casi viene contestata proprio perché insegue le emozioni più negative, più preoccupate dei cittadini». Se poi si chiede un parere sull’economia solo il 15-17% degli italiani esprime un giudizio positivo, rispetto, per esempio, ai due terzi dei peruviani. «Noi tendiamo ad avere una visione negativa, svalutativa del nostro Paese». Ma anche riguardo alle realtà positive, molti connazionali le ignorano: per esempio il 79% non sa che siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa. Il primato più noto riguarda i siti riconosciuti come patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco: il 38% (poco più di una persona su tre) è al corrente che siamo il Paese che ne ha di più al mondo (55). Inoltre occupiamo il primo posto in Europa per economia circolare, con un tasso di riciclo dei rifiuti al 76-77%, il doppio rispetto alla media. Eppure si ignora questo dato e la metà della popolazione non ci crede. «Le percezioni possono essere distanti dalla realtà, ma sono quelle che guidano i nostri comportamenti – ha osservato Pagnoncelli –. Se noi pensiamo che il nostro è un Paese in declino e continuiamo a ritenerci a livello della Grecia, quando il suo Pil corrisponde grossomodo a quello della Lombardia, è chiaro che curveremo i nostri comportamenti sulla base di questa preoccupazione».
Ciò che ci inquieta maggiormente a livello nazionale e determina un’agenda delle priorità è il tema economico-occupazionale (76%), seguito dal funzionamento delle istituzioni (35%), il welfare (34%), l’immigrazione (un terzo degli italiani, 31%), la sicurezza (28%) e, in chiusura, ambiente (9%) e mobilità (3%). «Ma se chiediamo quali siano le priorità nella zona in cui uno vive, il quadro è molto diverso: occupazione ed economia (43%) restano ai vertici, ma con valori che sono poco più della metà di quelli attribuiti al Paese; seguono mobilità (42%) e ambiente (28%), mentre l’immigrazione è in fondo (11%). Le ricerche ci restituiscono non solo percezioni distanti dalla realtà, ma anche molte ambivalenze dei nostri concittadini e connazionali. Spesso rispetto a uno stesso tema si osservano atteggiamenti diversi a seconda della prospettiva. I migranti rappresentano un elemento di complessità quando si parla del fenomeno generale, ma quando si riferisce a dove uno vive, no. Perché il migrante si identifica con la badante, i bambini che giocano e vanno a scuola con i propri figli e nipoti».
Tre sono le cause che il prof. Pagnoncelli ha individuato per spiegare questo divario tra realtà e percezione: il basso livello di scolarità (il 56% degli elettori ha la licenza media) che «comporta avere una “cassetta degli attrezzi” meno ricca per poter interpretare fenomeni complessi»; il prevalere delle emozioni sulla razionalità («Se un fenomeno ci preoccupa, quando ne veniamo interpellati tendiamo inconsapevolmente a dilatarne la portata»); il modo in cui ci informiamo. Riguardo a quest’ultima, in base a un confronto fatto dal Censis tra 2007 e 2017, «si osserva come la tv mantenga la sua centralità ed è ancora la fonte di informazione prevalente o esclusiva per una parte molto larga della popolazione italiana (oltre il 90% di utenti dei media), seguita dalla radio (quasi il 60%). In fortissimo calo sono i quotidiani, la carta stampata (si è passati dal 67 al 36%). Si vendono meno di 2,5 milioni di giornali al giorno contro i 5,5 milioni all’inizio del 2008. Non che la carta stampata sia lo strumento principe, però induce le persone ad approfondire di più, a confrontare opinioni rispetto a una fruizione rapida e immediata». Internet è certamente uno strumento straordinario, «luogo di democrazia e di confronto, fonte inesauribile di informazioni» acquisibili in pochissimi secondi (se ne serve il 75% degli utenti dei media, rispetto al 45% nel 2007). Però oltre al rischio delle fake news, il web diventa sempre più spesso l’ambiente che induce a confrontarsi con chi la pensa come noi, espellendo gli altri. «La nostra logica è di tipo confermativo. Non importa che la nostra percezione sia giusta o sbagliata: andiamo a cercare qualcosa che confermi il nostro pregiudizio». Ma è problematica anche la crescita delle fonti algoritmiche, «quelle che tengono conto del mio comportamento passato» (per esempio se cerco sul web notizie su un prodotto, nelle settimane successive continuerò a ricevere informazioni e proposte commerciali sull’identico tema). «Lo stesso sta avvenendo con le informazioni: mi vengono proposte quelle che considerano le mie consultazioni precedenti». Per limitare la distanza tra realtà e percezione serve «un’assunzione di responsabilità individuale nel campo in cui ciascuno opera, nel ruolo sociale che ha». Occorre vincere la pigrizia che porta a «fermarsi alle news immediate e in tempo reale. Il paradosso è che abbiamo più fonti di informazione, più cittadini informati ma di informazioni di primo livello, mentre abbiamo meno cittadini capaci di discernimento». Dal canto loro i mass media «seguono la logica dell’audience, della sopravvivenza e molto spesso rincorrere alcuni tipi di notizie garantisce il mantenimento dei livelli di ascolto, di lettura». La politica inoltre «rincorre in modo esasperato il consenso del qui ed ora, del giorno per giorno, inconsapevole del fatto che il nostro è un Paese nel quale ci sono innamoramenti e lune di miele seguite da cali di popolarità. Uscire da questa situazione significa trovare delle mete di medio-lungo termine e rimettere al centro un interesse più generale del Paese». Si tratta allora di far emergere, di raccontare il bello che c’è in Italia, per esempio a livello di capitale sociale: 6 milioni di persone impegnate ogni settimana in attività di volontariato; un italiano su due fa donazioni a una onlus; 340mila organizzazioni non profit impegnate in vari ambiti. «C’è un reticolo di mondi associativi che sono la ricchezza di questo Paese. Facciamo fatica a parlarne, ma costituiscono un elemento di valore che ci distingue da altre nazioni».
A. Mar.

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