Chiesa
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«La Chiesa non faccia “nuove cose” ma faccia nuove tutte le cose»

di NICOLA SALVAGNIN

Mons. Alessandro Bonetti: pandemia un duro colpo, dalle strutture passiamo ai processi

Parole chiave: Chiesa (180), Diocesi di Verona (73), Pandemia (35), Covid-19 (89), Pastorale (30)
«La Chiesa non faccia “nuove cose” ma faccia nuove tutte le cose»

di NICOLA SALVAGNIN

“Scambiatevi un segno di pace”: era uno dei momenti più belli della celebrazione eucaristica, con i fedeli che si sorridevano e si stringevano reciprocamente le mani, magari accompagnando un saluto. Ma la pandemia ha detto: verboten! Nein! Nein! Nein! E adesso ci si lancia uno sguardo da una fila all’altra, distanziati convenientemente, un fugace gesto della mano che – entrata in chiesa – non ha toccato l’acqua santa ma si è disinfettata abbondantemente.
La pandemia ha colpito duro anche la Chiesa, anche le chiese. Queste ultime hanno inizialmente temuto di rimanere chiuse, poi – con regole stringenti e osservate con scrupolo – hanno tenuto le porte aperte ad un numero di fedeli però chiaramente più ridotto. La paura del contagio su tutto. E lo stop al catechismo, alle attività parrocchiali, a molti Grest, ai campi estivi; prime Comunioni e Cresime rinviate, Matrimoni posticipati, funerali che non erano funerali...
Sono passati due anni. Facciamo il punto della situazione con il vicario episcopale mons. Alessandro Bonetti, responsabile della pastorale diocesana: «L’ho detto subito: non andrà tutto bene, ma andrà tutto nuovo. Il problema vero non è relativo all’organizzazione della nostra Chiesa, ma di fondamento: il contesto di fede che si innesta nella vita attraverso l’esperienza è venuto a mancare in questo periodo. Le “strutture” sono rimaste le stesse, la gente frequenta ma fatica a “spiegare” perché, a molte persone è venuto a mancare il senso della propria fede. Che non è pregare o ricevere questo o quel sacramento, ma aver fatto esperienza personale della presenza di Dio, affidarsi a Lui».
– È un discorso che temporalmente travalica il periodo della pandemia...
«Certo. I nostri anziani mica avevano fatto il catechismo, eppure respiravano la fede in ogni loro momento. E noi di mezz’età siamo l’ultima generazione cresciuta a “pane e Gesù”. Poi è progressivamente venuta a mancare la convinzione che la vita e la fede siano collegate. Ora se ne fa una questione filosofica, si dice: la fede la scegli eventualmente dopo, durante il percorso della vita. Ovviamente non è così».
– La “struttura” ecclesiale ha retto.
«Sì, solo che sta mostrando i suoi limiti. Dal Concilio Vaticano II abbiamo riempito le parrocchie di attività, di “esperienze”: sport, scuola, teatro, musica, oratorio, campi estivi... Si facevano e si fanno esperienze particolari, non una vera esperienza di fede che lega la vita alla luce di Cristo. Tant’è che i ragazzi che anche frequentano le parrocchie, poi si perdono rapidamente. La pandemia ha bloccato tali attività, le parrocchie si sono trovate nude; ma lo erano da tempo, perché abbiamo dato all’organizzazione il valore che non ha, al sacerdote compiti manageriali più che pastorali».
– Quindi non è tanto una questione di spartire i compiti tra parroco e laici, quanto una questione di senso stesso delle strutture.

«L’organizzazione non evangelizza, l’organizzazione è diventata pachidermica, tra l’altro ci sono sempre meno persone a sostenerla. E aggiungo: motivate e capaci di trasmettere il senso di una fede, perché la questione vera non è capire chi gestisce la bocciofila o chi si assume il compito di fare catechismo. Quindi siamo in una situazione di “tanto in mano a pochi”, dove però ci si deve concentrare sul vero aspetto della questione: è finito il tempo di occupare spazi, ora è tempo di aprire processi, di passare appunto dai progetti ai processi. È l’esempio che evangelizza, è il vivere con Cristo e in Cristo che conquista».
– Un po’ il mantra di papa Francesco: una Chiesa che esce...
«Perché il futuro sono le relazioni, le testimonianze. Ne abbiamo continua prova, da lì non si scappa. Meglio piccole esperienze che però siano significative, che una macchina ormai ingolfata e poco efficace».
– Quindi?
«Facciamo come il buon contadino: tagliare ciò che è secco e bruciarlo; potare affinché poi ci sia più frutto; innestare tralci nuovi. La differenza della Chiesa cattolica è lo sguardo, rivolto verso il Cielo e non verso la terra. Altrimenti quel che facciamo noi, lo possono fare tutti e non si vede la differenza. Il passaggio essenziale è recuperare la dimensione della fede, l’attesa del premio che verrà».
– Quindi un ritorno al passato, un “è tutto come prima” sarebbe una sconfitta.
«Peggio, un errore. Il rischio è restaurare qualcosa che già non stava in piedi, o rifugiarsi nel culto, nel codificato, in ciò che ti dà sicurezza. La pandemia è stata un potente schiaffo che ci permette ora di guardare la realtà con più coraggio, una grande opportunità per cambiare. Il lavoro del parroco non dovrà tanto essere quello di organizzare incontri, ma di dialogare con le persone, perché è lui il custode del fuoco. L’accoglienza non deve essere più l’organizzazione, ma la relazione, perché la Chiesa è relazione con Cristo».
– Quindi non siamo dentro una parabola che risale, ma in una curva a gomito.

«Esattamente nel punto in cui dobbiamo decidere che direzione intraprendere: restaurare o cambiare. Con coraggio, sceglieremo di cambiare. Sapendo che non ci sono da fare nuove cose, ma da fare nuove tutte le cose». 

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