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Tra Belgio e Venezuela inseguendo un futuro lontano dalla Lessinia

di MARTA BICEGO

La storia di un 97enne che cercò e trovò fortuna emigrando

Parole chiave: Lessinia (31), Migrazione (5), Montagna (7)
Tra Belgio e Venezuela inseguendo un futuro lontano dalla Lessinia

di MARTA BICEGO

È partito, ma è anche ritornato. E quando, dall’alto delle sue montagne accarezzate dai pascoli, osserva l’orizzonte, gli occhi chiari di Elio Comerlati si colorano di ricordi. Per i momenti felici, quando nel 1965 assieme alla moglie Lodovica Carpene posò la prima pietra del ristorante “Conca dei Parpari”, nell’omonima località di Roveré Veronese: attività portata avanti con la tenacia di un montanaro, ora nelle mani delle figlie Gianna e Ivana. Per i momenti drammatici vissuti al tempo della Seconda Guerra mondiale, quando giovanissimo, per servire la patria, fu costretto ad abbandonare contrada Comerlati di Velo, dov’era nato nel 1924, settimo di otto figli.
Nel mezzo, una parte della vita trascorsa da emigrante: prima in Belgio e, dopo aver attraversato l’Atlantico, in Venezuela con la valigia ricolma di speranze e di qualche arnese per potersi mantenere con un mestiere dignitoso in quella terra straniera che gli avrebbe dato ospitalità. «È stata dura», rimarca lucidamente Comerlati, Cavaliere al merito della Repubblica dal 1974 e libro spalancato sulla storia nel rievocare il periodo del conflitto e soprattutto quello che ne seguì dopo.
L’inizio delle grandi migrazioni, la necessità del cercare fortuna altrove e del trovare il coraggio di partire senza certezze per destinazioni remote, quando ancora di quello che succedeva oltre confine si conosceva poco. «Uscivamo dalle atrocità della guerra. Eravamo abituati ai sacrifici dopo aver provato fame, povertà, tristezze. In molti siamo stati costretti a cercare lavoro in altri Paesi per sfuggire dalla miseria e per migliorare le condizioni di vita nostre e dei nostri familiari. Ma in molti possiamo dire di aver contribuito, grazie alle nostre fatiche, allo sviluppo dell’Italia di oggi», sottolinea il socio storico dell’associazione Veronesi nel mondo.
Ad andare via col fucile non s’imparava un’arte: il conflitto bellico aveva educato soltanto a imbracciare le armi. Le giovani generazioni di allora un mestiere vero e proprio, dice, l’avevano appreso proprio da migranti. E, con le competenze acquisite a fronte di abnegazione e impegno, hanno fatto ritorno a casa per aiutare con quanto guadagnato, ancora una volta, il loro Paese. Così è stato pure per Elio Comerlati. Era il 1947 quando lasciò la Lessinia per andare a lavorare in una miniera di carbone a Charleroi, in Belgio. «Chi aveva il coraggio, partiva», racconta. Ai lavoratori venivano offerte le spese per il viaggio, ma in cambio dovevano rimanere un anno a faticare nel sottosuolo. «Non appena arrivato là, scoprii che molte persone morivano a causa della silicosi. Non me la sentii di rimanere e chiesi a mia madre di scrivere una lettera in cui mi richiamava a casa per gravi problemi familiari», ricorda. A settembre di quell’anno, prosegue il novantasettenne, si aprì come nuova rotta della migrazione quella del Sudamerica: «Da Velo partimmo in sette per il Venezuela, anche se non sapevamo esattamente dove saremmo finiti, visto che come destinazione non era molto conosciuta, nemmeno sulle carte geografiche». Il biglietto all’epoca costava parecchio, 94mila lire: «Noi lo pagammo il doppio, perché qualcuno se ne approfittò. Io e mio fratello racimolammo in qualche modo il denaro necessario, in parte chiedendolo in prestito a un compaesano».
Il manipolo di montanari si imbarcò il 1° febbraio dal porto di Genova, a bordo della nave svizzera Auriga, che salpò il giorno seguente. Ci vollero venti giorni di navigazione per approdare in Venezuela e lì gli emigranti veronesi trascorsero due settimane di quarantena, trasferiti in uno chalet in montagna per essere sottoposti ad analisi e visite mediche d’obbligo.
Da quel luogo, in cui non c’era nulla, ognuno – come meglio potè – si spostò per andare alla ricerca di un’occupazione. Come primo lavoro, Comerlati si cimentò nell’edilizia, provando a fare il muratore: durò poco perché non era molto esperto nel maneggiare mattoni, malta e cazzuola. I muretti non gli riuscivano dritti. Così fu liquidato con una moneta d’argento da 5 bolivar, reminiscenza del primo sudato guadagno. Fu in seguito ingaggiato da un Comerlati che, partito da piazza Erbe, aveva fondato un’azienda a Caracas che si era specializzata nella tinteggiatura di grattacieli. Successivamente, per raggiungere il fratello Mario, si spostò a Puerto La Cruz. E qui trovò finalmente stabilità economica.
«Ero partito dall’Italia come fabbro ferraio, con una pinza e un martello nella valigia. Avevo pratica del mestiere, ma come prima commissione mi chiesero di costruire la biglietteria di un cinema. E chi ne aveva mai visto uno? Improvvisai uno schizzo su un foglio, osservando quello che aveva fatto uno prima di me. Andò bene. Riuscii a completare l’opera e realizzai una bella cifra. Furono i primi soldi che inviai a casa per saldare il debito del viaggio», descrive. Nessuno là maneggiava il ferro, non c’era concorrenza. Tanto che in pochi anni, assieme ad altri tre fratelli che lo raggiunsero, acquistò un terreno sul quale costruì un’officina con un paio di stanze in cui vivere e un laboratorio che divenne molto conosciuto nella cittadina venezuelana.
«Tornai in Italia nel 1952, stavolta in aereo. Avevo saldato i debiti, costruito una casa in Venezuela, l’officina era avviata. Ma era arrivato il momento di trovare moglie e mettere su famiglia. Fu proprio facendo visita ad alcuni parenti che una cugina mi disse di voler partire con me. Da quel momento non ci siamo più lasciati: dopo quaranta giorni ci siamo sposati e insieme siamo ripartiti in nave per tornare a Puerto La Cruz. Era il 1953», spiega, andando coi ricordi a quando conobbe la moglie Lodovica (venuta a mancare nel 2016). Si fermarono all’estero fino al 1960: «Eravamo felici. Aiutammo anche a costruire una chiesa, a partire dal tetto. Andavamo a Messa ogni domenica. Se non ci fosse stata la rivoluzione, non saremmo mai ritornati in Italia. Però, alle prime avvisaglie di estremismo, decidemmo di fare ritorno a Verona. Una guerra l’avevamo già vissuta sulla nostra pelle...». Si stabilirono prima nel quartiere di San Michele; quindi a Velo nel 1964, con i familiari, Comerlati realizzò il primo impianto di risalita. La stagione invernale prometteva guadagni e opportunità: da lì lo spunto per raggiungere una quota ancora più alta, i 1.400 metri di Conca dei Parpari, per trasferirsi a vivere, realizzare uno chalet nel cuore dei Lessini e degli impianti di risalita con cui dare slancio al turismo invernale. E da lì continuare a osservare l’orizzonte, con la mente che tuttora non smette di viaggiare tra i ricordi. 

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