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«Scuola: sì alle regole ma con il giusto buonsenso»

L’esperta: scacciamo la paura, intanto approfittiamo per ripararla

Parole chiave: Scuola (90), Covid-19 (90)
«Scuola: sì alle regole ma con il giusto buonsenso»

L’emozione nel sentire il suono della campanella, magari dopo aver trascorso la notte insonne. La fibrillazione del caricarsi sulle spalle lo zaino, del varcare la soglia dell’aula, del trovare posto al banco. E da qui apprendere il mondo, leggendone le coordinate sulla lavagna.
Per ragazzi, genitori, docenti l’anno scolastico è ripreso nei giorni scorsi. Diversamente. Alle spalle la pandemia, che ha rovesciato le consuetudini dell’insegnare e trasformato le classi in luoghi virtuali; davanti agli occhi un ripartire, e riallacciare legami sfilacciati nel lockdown, che nasconde molte incertezze tra tante regole certe.
«C'è sicuramente entusiasmo nel tornare a scuola dopo tanto tempo», commenta la scrittrice vicentina Mariapia Veladiano (nella foto sopra, scattata da Andrea Lomazzi). Il quadro l’ha chiaro: per quasi quarant’anni ha lavorato come docente di Lettere e Religione alle superiori, poi è stata preside a Rovereto e Vicenza. Conosce i ragazzi e chi siede in cattedra, così all’insegnamento ha dedicato il saggio Parole di scuola (edizioni Guanda). «Tutti aspettano la scuola perché il lungo allontanamento ha reso più evidente quanto sia bella e importante per tutti – evidenzia –. Anche in termini di rapporti con i compagni e gli amici, un mondo significativo e altro rispetto alla famiglia. Le regole anti-contagio non favoriscono proprio questo entusiasmo naturale del ritrovarsi. Sta alla saggezza di tutti fare in modo che le regole non prevalgano sulla vita. Le regole sono al servizio della vita, che comprende la socialità».
– Si è parlato tanto di ripartenza in queste settimane: dalla prospettiva delle scelte del Governo, delle percentuali di presenza sugli autobus, delle distanze a ricreazione... Ai ragazzi si pensa solo in questi termini? C’è altro a cui prestare attenzione?
«Sì. Pensare a riparare le paure di questo tempo malato. La paura è veleno che toglie gioia di vivere. È importante che la scuola, dal primo giorno, sia consapevolmente impegnata a essere luogo in cui circola la fiducia. Possiamo recuperare. Nessuna ansia. Abbiamo imparato quanto è prezioso il tempo, che ci sono molti modi di fare scuola. Siamo più consapevoli e attrezzati. Frasi del tipo: “Adesso cominciamo ma non si sa come va a finire”, non servono a niente. In senso lato, sempre lavoriamo in condizioni di provvisorietà ma intanto facciamo, insegniamo, viviamo».
– È un’occasione per ripensare la scuola?
«Questa è davvero un’occasione per ripensare la scuola. Sono esplosi problemi che c’erano già. Siamo in difficoltà con le aule perché spesso sono vecchie, piccole, poco flessibili e troppo affollate. Siamo in difficoltà con i trasporti perché da anni viaggiano fuori norma, pieni fino all’inverosimile. Siamo in difficoltà con i docenti di sostegno – ed è vergognoso – perché il ministero non ha mostrato alcuna capacità previsionale anche se aveva tutti gli elementi per poterlo fare e anche se la legge lo prevede. La scuola è un bene pubblico e un servizio. Nessuna logica d’impresa la deve governare. È chiamata a ridurre la disuguaglianza, a permettere la realizzazione delle potenzialità di ogni bambino, a passare dall’uguaglianza formale a quella reale. Abbiamo capito cosa fare: costruire scuole, ridurre il divario digitale, preparare docenti per i ragazzi che arrivano da situazioni di disagio sociale e culturale. E soprattutto essere preparati a una didattica diversificata, flessibile, fantasiosa».
– Qual è la sua visione?
«La scuola come bene comune che vede un’alleanza strettissima con la comunità tutta, genitori, amministratori, volontari. Sta succedendo. In questo momento riaprono con maggiore sicurezza e bellezza le scuole i cui presidi e docenti hanno saputo coinvolgere il mondo intorno. Ci sono genitori che hanno materialmente dipinto i simboli-guida per i percorsi differenziati di ingresso per i bambini: seguire il giallo delle farfalle, il rosso delle coccinelle e così via. Altri hanno realizzato cartelli e istruzioni, o fanno a turno la sorveglianza in cortile nel pre-ingresso dei bimbi. So di scuole che nell’ultima domenica prima dell’apertura hanno lavorato insieme ai presidi (e alle presidi!) per gli ultimi ritocchi. Così ce la possiamo fare. La scuola non può risolvere da sola i problemi nati da una pandemia. Ma scherziamo?».
– A proposito di Parole di scuola, quale termine associa alla situazione innescata dall’emergenza Covid-19?
«Riparare. La scuola è l’arte di riparare l’ignoranza, la paura, la sfiducia. Siamo dei grandi riparatori. È una bella parola, riparare, sa? Vuol dire che una cosa è così preziosa che non la si butta, vale pure se ha dei problemi. Vuol dire non sottostare alla logica dello scarto. Se non è perfetto, bellissimo, sanissimo buttiamo? Oppure ci disperiamo? Ma quando mai. Riparare è l’arte di vivere».
– Non tutto è da criticare. Nei mesi di quarantena molto istituti (e con loro docenti e presidi) si sono attivati, hanno rivoluzionato la didattica...
«Un lavoro immenso. Chi non lo riconosce è in malafede. Qualcuno ha definito questo periodo di pandemia il più importante corso di aggiornamento dei nostri docenti, la cui età media è intorno ai 55 anni ma, soprattutto, ormai abbandonati da anni rispetto all’aggiornamento, specialmente nella didattica digitale. Che non è una panacea. È una didattica che ordinariamente deve affiancare quella tradizionale ma in assoluto necessaria in emergenza. Molti insegnanti quest’anno iniziano la scuola già stremati. Hanno lavorato tutta l’estate alla ripartenza, si sono organizzati per una didattica flessibile. Hanno collaborato con i presidi per mettere le scuole in sicurezza. Hanno aiutato studenti e genitori a governare l’incertezza. Bisogna sostenere questo lavoro».
– Quale eredità lascerà l’emergenza nei docenti (già abituati a lavorare in condizioni difficili), nelle giovani generazioni, nelle famiglie?
«La stessa che un poco alla volta stiamo scoprendo tutti. Che siamo fragili, che da soli non se ne esce, che è il caso di cambiare il mondo e viaggiare con un passo più leggero sul piano ambientale e più collaborativo. Concretamente: se una nazione chiude tutto e l’altra non chiude nulla, non si può riprendere a vivere in sicurezza. Se il vaccino non è per tutti, sarà la guerra. Non è quello che vogliamo e allora ci prepariamo a collaborare, collaborare, collaborare».
– La vicinanza alla fede, attraverso l’insegnamento della religione nelle aule, potrà essere di supporto?
«L’insegnamento della religione cattolica a scuola ha finalità culturali. Riflettere sul fenomeno universale della religione e della fede apre intrinsecamente alla dimensione della speranza. Per quel che ho potuto vedere, gli insegnanti di religione sono stati quasi magici nel periodo del confinamento. Presenti a tutte le ore, in ascolto, hanno aiutato a superare tensioni e tristezze. Come gli altri insegnanti, naturalmente. Ma si sa che l’insegnamento della religione cattolica gode di una maggiore flessibilità nei programmi e nella gestione dei tempi».
– Molti sono stati gli sforzi, è innegabile. Non si può dire però che i risultati raggiunti siano stati uguali. Per esempio nelle disuguaglianze create dalla difficoltà di accesso alle tecnologie per la formazione on line. «La scuola durante il confinamento ha perso un milione di studenti, che non si sono collegati alla didattica a distanza per motivi di povertà tecnologica, disagio famigliare, povertà culturale o banale mancanza di rete. Un disastro. È uno scandalo e la scuola deve partire da loro altrimenti le disuguaglianze diventano una voragine che inghiotte il loro futuro e annienta la Costituzione che si fonda sull’uguaglianza e l’equità».
– Nella sua prossima pubblicazione per l’editore Guanda, Adesso che sei qui, parlerà tra le altre cose di fragilità. Vede questo nel futuro o ci sono margini per sperare che la pandemia abbia riscritto un capitolo nuovo?
«È una storia scritta prima della pandemia e racconta la bellezza di non lasciare indietro nessuno, mai. Una storia di grande sorellanza, posso dire così, fra donne diversissime per cultura ed età. Fragili siamo. Possiamo far finta che non sia vero e poi andare a sbattere e risolvere i problemi in corsa oppure vivere sapendolo e costruendo quella rete di comunità che ci permette di non cadere nella paura. L’errore più grande ora sarebbe tornare a divorare il mondo come prima, non aver imparato niente. La scuola può aiutarci a non farlo». 

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