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Nella casa-museo di Mario, ultimo custode della vita contadina

Il sanmartinese Zenzolo ha raccolto un migliaio di strumenti e oggetti legati al nostro passato rurale. «Sono pronto a donarli al Comune», dice. 

Nella casa-museo di Mario, ultimo custode della vita contadina

La macchina del tempo non esiste? Entrando nel museo domestico di Mario Zenzolo qualche dubbio sorge. In località Ortini, a San Martino Buon Albergo, il tempo pare essersi fermato. Qui oltre un migliaio di strumenti della civiltà contadina sono stati salvati dalla discarica. «Ho la mania di tenere tutto, persino i calendari vecchi, e ho messo da parte dei pezzi fin da bambino – confessa il signor Mario –. Vent’anni fa ho iniziato ad appenderli, riordinandoli pian piano».

Ad accogliere i visitatori c’è un seon, una pompa per prelevare l’acqua che era presente in tutte le corti, prima che fosse portato l’acquedotto. «Un secolo fa San Martino Buon Albergo era al 99% rurale, oggi lo è forse all’1% e tutte queste testimonianze del passato in pochi le ricordano», spiega Mario, che i suoi 83 anni di vita li ha trascorsi a contatto con i campi, condividendo prima un’azienda agricola con i fratelli e poi facendo l’innestatore e il potatore nei vivai. 

Di quella vita rurale parlano gli attrezzi da lavoro. Per secoli svolto dai contadini con le proprie forze, come testimoniano le zappe o i ferri per tagliare il fieno («Con relativa prèa per affilare la lama, tenuta in un astuccio detto coàr») o tuttalpiù con l’aiuto di cavalli e buoi. Ecco allora le canaole per assicurare gli animali alla greppia, l’attacco del cavallo per la versora («Serviva a rincalzare le zolle e il cavallo era così educato che si girava da solo in fondo al campo»), l’erpice (arpego) trainato dai buoi, la testata di un carro agricolo di legno, datata 1877 e targata San Martino, una falciatrice degli anni Trenta a trazione equina… Aratura, semina e raccolta si facevano così, fino alla diffusione dei trattori. Come l’indistruttibile Ford del 1917, proprietà della famiglia Zenzolo: «Fu uno dei primi ad arrivare dall’America, aveva la manovella d’avvio sul davanti e un solo pedale». 

Potrebbe raccontare per ore quel passato, Mario. Nella voce c’è un po’ di nostalgia. «Tornerei indietro subito: si faticava tanto, si aveva poco, ma erano tutti più contenti di adesso – osserva –. Ai miei tempi si cantava in ogni momento, ora le persone sono sempre arrabbiate, immusonè». Poi mostra con orgoglio il caregoto(seggiolone) regalatogli dalla zia e il piccolo scagno (sgabello) che usava per mungere le vacche, a 6 anni: due pezzi a lui coevi, «vèci come mi».

Accanto ai numerosi attrezzi da falegname e maniscalco, conserva moltissimi utensili da cucina: il menapolenta per appoggiare il ginocchio mentre si mescolava la polenta sul camino; la bala per tostare il caffè; el cortel per taiar le paparele, il coltello per la pasta fresca ricavato dalla lama del ferro da fieno; la gerla per trasportare i secchi d’acqua dal pozzo e appenderli sopra el seciar, il secchiaio. Non si contano i ferri da stiro azionati dalle braci, le moneghe con scaldaletto per portare tepore fra le coperte, le stufe in terracotta; e, ancora, gli arnesi per l’igiene personale: il lavandino era un catino con una brocca, il wc un semplice bocàl. In bella mostra ci sono anche sedie che si trasformano in inginocchiatoi per la preghiera, acquasantiere domestiche, velette da chiesa, scatole porta fazzoletto per le signore…

La sua vasta collezione è finita di recente in un documentario, curato da Sergio Spiazzi e Attilio Scolari. «Qui ormai è tutto stipato, perciò mi piacerebbe donare tutto al Comune: se mettesse a disposizione uno spazio, questi oggetti potrebbero formare un museo della storia contadina», auspica Mario. Un modo per preservare le tracce di una civiltà altrimenti destinata all’oblio.

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