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Montorio, il lager che fu anticamera di Auschwitz

di ELENA CALIARI
Dimenticato, ora recuperato e luogo della memoria 

Montorio, il lager che fu anticamera di Auschwitz

di ELENA CALIARI
È il febbraio 1944. In uno stanzone in centro a Verona vengono condotti circa quaranta ebrei. Sono di Roma e sono stati rastrellati dalla polizia repubblichina nelle loro abitazioni, ma anche dall’interno della basilica di San Paolo, con un’irruzione illecita che viola l’extra-territorialità garantita dai Patti Lateranensi. Caricati su un treno, scendono a Verona, “capitale” della Rsi e sede della Gestapo e del’’Ufficio nazista che organizza le deportazioni in tutta Italia, e vengono concentrati in un edificio a “Ponte Cittadella” dove passano anche altri ebrei scaligeri presi da repubblichini e nazisti. Ci sono anche dei bambini come Renata, che ha appena un anno.
Il gruppo, in aprile, viene spostato nella campagna cittadina, verso San Michele Extra, in località Colombare, nella palazzina Dat per la difesa antiaerea. È una casa rurale, con un pozzo, tra campi e canali, affiancata da cinque cannoni da contraerea e collegata con una stradina sterrata alle temibili “casermette di Montorio”, luogo di detenzione e tortura di dissidenti politici e renitenti alla leva. Alla palazzina Dat gli ebrei romani restano per circa un mese, per essere caricati di nuovo su un treno, a maggio, che li porterà prima a Fossoli e poi ad Auschwitz. I sopravvissuti si conteranno sulle dita di una mano. Renata, di un anno, e Cesira, di due, saranno subito assassinate. Come Carlo Sabatello, dodicenne detenuto con il padre, che scrive alla mamma contento di lasciare lo stanzone di Ponte Cittadella per andare in un luogo più aperto dove si può giocare. Non sa che è l’anticamera della morte.
Di questo passaggio e della storia di Verona che ebbe il suo campo di concentramento, oggi raccontano i volontari delle associazioni Montorioveronese.it e Figli della Shoah che hanno ottenuto dal Comune – firmando un patto di sussidiarietà – di recente la gestione del sito storico, dopo averlo recuperato, e organizzano le prime visite guidate: le prossime saranno il 22 e 23 ottobre, il 26 e 27 novembre, il 17 e il 18 dicembre prenotando a montorioveronese@gmail.com e figlidellashoah.verona@gmail.com.
Ma questa è anche la storia del recupero di una memoria caduta nell’oblio. Circa cinque anni fa Roberto Rubele e Christian Albrigi, di Montorioveronese.it, vengono in possesso di un documento trovato da Olinto Domenichini, dell’Istituto per la storia della Resistenza, nei documenti del Gabinetto di Prefettura, in Archivio di Stato. Il foglio cita il campo di concentramento di Montorio.
I due si mettono allora in cerca di quel luogo. Mettono insieme testimonianze orali della popolazione locale e quelle video di superstiti come Leone Fiorentino, comparano cartografie e documenti giungendo a una casetta inghiottita dai rovi in campagna, a ridosso della tangenziale che lambisce Montorio.
La conquista è però offuscata nel frattempo dalla notizia, nel 2019, che il demanio ha inserito la palazzina Dat tra i beni alienabili. Ne nasce una querelle sui giornali. La politica si muove e la questione arriva fino a Roma, sotto forma di interrogazione parlamentare sottoscritta per prima dalla senatrice a vita Liliana Segre. Il Comune di Verona chiede e ottiene così la gestione del sito che i volontari della Montorio recuperano: ripuliscono l’area, tolgono i rovi dalla casa, circondano il cortile e pongono dei cartelli di spiegazione, restituendo alla collettività un tassello di storia comune. E ora, insieme ai Figli della Shoah, potranno raccontarla agli alunni in visita e ai cittadini. Nel frattempo, il Comune ha iniziato la procedura di acquisizione definitiva dell’area che dovrà passare per un piano di valorizzazione che potrebbe essere pronto già per l’anno prossimo.
Sono tante le vite che si sono intrecciate nel vecchio manufatto oggi accerchiato da frutteti e da una campagna verdeggiante. Oltre agli ebrei, lì, nel 1944, vengono condotti anche renitenti e “ribelli” dalla guardia repubblicana che li rinchiude e li tortura, appendendoli a testa in giù nel pozzo del cortile o agli alberi da frutto. Passano delle donne, come Matilde Lenotti Orna quando viene catturato il fratello, o Concetta Fiorio, moglie di Emilio Moretto Bernardinelli, uno dei gappisti dell’assalto agli Scalzi del luglio 1944. Concetta, incinta, viene arrestata nell’agosto successivo e imprigionata nella Dat subendo estenuanti interrogatori fino ad ottobre, quando viene ricoverata in ospedale per dare alla luce un figlio che nascerà con i segni delle violenze subite. Ci sono madri, nonne, sorelle di ricercati alle quali non sono risparmiate, infatti, torture. Lenotti Orna definirà l’edificio «la dependance delle casermette di Montorio». Perché è lo stesso uso, insomma, che si fa delle casermette poco distanti, oggi inglobate nella Caserma Duca.
Per questo la palazzina Dat della Colombara assume un significato ancor più grande: è un luogo simbolo delle efferatezze di cui fu capace la Verona nera, è un luogo per tutti i luoghi in cui andò in scena la violenza durante la guerra e che sono andati perduti. È memoria da non dimenticare perché, usando le parole di Segre riportate sul cancello d’ingresso della Dat, “ricordare è vigilanza attiva, praticare la memoria aiuta a mantenere in buona salute la democrazia”, e soprattutto “coltivare la memoria aiuta a restare umani”.

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