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Ma conviene ancora laurearsi?

Non è un paese per laureati: si fatica a trovare lavoro e le retribuzioni sono basse. In crisi un titolo di studio che in certi casi sta perdendo appeal

Parole chiave: Laureati (1), Giovani (99), Lavoro (62)
Immagine di statuine di neo laureati su un rullo trasportatore che cadono dentro un secchio della spazzatura

Non è un Paese per laureati: si fatica a trovare lavoro e le retribuzioni sono basse
In crisi un titolo di studio che in certi casi sta perdendo appeal

In Italia la quota dei laureati sulla popolazione adulta dei 25-64enni (inferiore al 18%) resta ancora troppo bassa rispetto agli altri Paesi dell’Ue 22, dove è pari al 34% e dell’Ocse (36%). Dall’esame del dettaglio regionale fatta dalla Svimez, la quota media di laureati risulta ancora più bassa nel Mezzogiorno dove scende al 14,6% rispetto al 17,9% del Nord e al 19,8% del Centro.
“Se restringiamo l’analisi alla fascia di popolazione giovane dei 30-34enni – si legge in una nota della Svimez – la quota di italiani laureati sale al 26,2% nel 2016. Sebbene i giovani laureati siano cresciuti del 10,6% dal 2004, il dato resta solo apparentemente confortante poiché nel 2015 risultava il più basso di quelli registrati nell’Ue 28, al di sotto della media che è pari al 38,4% e dell’obiettivo del 40% fissato dalla Strategia Europa 2020”.
Se si considera il tasso di proseguimento degli studi universitari (ovvero quanti diplomati decidono di iscriversi all’Università) per la prima volta, sottolinea la Svimez, è tornato a crescere nell’anno accademico 2015-2016 dopo un trend negativo durato più di 10 anni. Nel 2016 la percentuale è stata del 60,3% dei diplomati italiani (quasi il 4% in più rispetto al 2015), sebbene non sia ai livelli del 2006 dove superava in media il 70,7%. L’aumento registrato nel 2016 è superiore al Nord, dove a proseguire gli studi è il 62,7% dei diplomati (+5,5% rispetto al 2015) e al Centro dove raggiunge il 63,6% (+4,3%) rispetto al Mezzogiorno dove il tasso di proseguimento degli studi si attesta al 54,5% (+2,1%). (Nota dell’Agensir)
Ci risiamo. In Italia i laureati sono pochi, meno che nel resto d’Europa. L’obiettivo è o sarebbe quello di farne di più, di spostare la percentuale di diplomati che proseguono gli studi: anche se la nota stessa ricorda che l’ultimo decennio è andato in controtendenza, all’università ci si va sempre di meno. E qui si potrebbero aggiungere le considerazioni espresse ultimamente dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sulla quantità ancora insufficiente di laureati in Italia; le opinioni di diverse forze politiche sull’importanza della quantità; dell’opinione di diversi intellettuali sull’importanza che...
Ma fermiamoci qui, perché le cose si complicano a un’analisi più attenta. Cioè alla realtà. Che dice: se un tempo la laurea garantiva anzitutto un lavoro, e spesso un lavoro qualificato con una buona-ottima retribuzione, oggidì le cose non stanno più così.
Il Corriere della Sera di qualche mese fa: a 30 anni, quattro laureati su 10 sono ancora senza un’occupazione stabile (dati dell’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro). Per la precisione: due il lavoro proprio non ce l’hanno; due fanno lavori che non richiedono una laurea; insomma laureati che affettano prosciutti in qualche supermercato et similia.
L’Osservatorio poi descrive come positivo un dato che invece fa riflettere: il tasso di occupazione dei laureati è di 8 punti percentuali superiore a quello dei diplomati di pari età. Solo l’8%? Considerando che ci sono diplomi presi al minimo dei voti per pura disperazione, e che l’investimento in tempo e denaro per una laurea non è certo indifferente, ci si aspetterebbe molta più differenza.
Ma dire “laureato” in Italia vuol dire poco. In Chimica o in Arte drammatica? Le prospettive cambiano molto, e qui sta il punto.
Le statistiche dicono che il medico e l’ingegnere faranno il lavoro per il quale hanno studiato; al contrario, chi si laurea in Lingue, in Scienze sociali e in Conservatorio ha una chance su due di fare ciò per cui si è specializzato. Oppure si adatta.
Altro mito da sfatare: le retribuzioni. La forbice media tra un laureato e un diplomato è del 20% in più per il primo. Ma appunto si tratta di una media: i medici la alzano molto, un trentenne psicologo (con lavoro) guadagna mensilmente solo 52 euro in più di un coetaneo diplomato...
Viene pertanto da dire: a che serve laurearsi – e cioè investire alcuni anni di vita e un certo capitale, di solito familiare – per rischiare di ritrovarsi pochi metri più avanti rispetto al tuffo nel mondo del lavoro fatto a 20 anni?
È un altro discorso puramente qualunquista. Perché ormai la questione è chiara: c’è laurea e laurea. Alcune aprono le porte a un futuro lavorativo e personale buono se non radioso; comunque a lavori a cui si accede solo tramite laurea. Altre valgono quanto un diploma. Cioè poco o niente. Eppure per anni si è registrato un boom di iscrizioni in corsi di laurea puramente “onorifici”, mentre ancor oggi i Politecnici non sono certo subissati di iscrizioni. Ma qualcosa sta cambiando, visto l’assalto ai test d’ingresso in Medicina che si registra negli ultimi anni, dove uno su dieci ce la farà e gli altri…
Qui sta un’altra questione che si sta allargando a macchia d’olio in molte facoltà italiane. Da una parte, Mattarella&company che invitano i giovani ad aspirare all’alloro accademico; dall’altra, università anche grandi, anche prestigiose che stanno introducendo il numero chiuso d’iscrizioni a rotta di collo. Con un discorso apparentemente inoppugnabile: una facoltà ha tot posti, tot aule, tot insegnanti. Se vuole garantire qualità d’insegnamento, o semplicemente l’insegnamento, deve tenere la porta aperta ma non spalancata.
Si evita così l’affollamento del primo anno (con tassi d’abbandono di un terzo alla fine dello stesso) e si motiva per l’appunto gli ammessi a non mollare. Non vorremmo ricordare i cinema milanesi che, negli anni Ottanta, venivano affittati da certe università per ospitare mille e passa matricole a lezione. O i tanti fuoricorso ultratrentenni. E i tanti esami preparati senza mai assistere una sola volta a una lezione frontale...
Se le porte si stanno (soc)chiudendo, ma così incentivando a terminare il corso di studi, i dati finali sui laureati non dovrebbero risentirne. Ma siamo sempre alla quantità; la qualità racconta invece di 70-80mila figure professionali considerate introvabili nel mercato lavorativo italiano: un dato in continua crescita di anno in anno. Di uno scollamento tra chi conosce a menadito la letteratura francese e le aziende che non saprebbero che lavoro dare a un simile laureato. Insomma di un’università che fatica a “parlare” con l’economia italiana.
È vero: non ci si laurea esclusivamente per trovare un posto di lavoro. Ma lo sfizio di non pensarci è riservato solo ai figli e alle figlie di papà. Che non costituiscono un problema né economico né sociale. E allora che fare?
«Andrebbe ridiscussa seriamente tutta la filiera italiana dell’istruzione e la sua offerta formativa – afferma Stefano Quaglia, direttore del “Toniolo” ma anche ex provveditore, ex preside, ex insegnante –. Ma un consiglio ai ragazzi voglio darlo: sono tempi in cui bisogna essere svegli, sapere come gira il mondo, diventare un po’ imprenditori di se stessi… Il posto fisso alla fine del percorso di studi, per quanto lungo, è cosa di un passato che quasi sicuramente non tornerà più».
Nicola Salvagnin

«La laurea conviene sempre e così la rendiamo più preziosa»
L’ateneo scaligero tutto a numero chiuso “per aumentare la qualità”

Dal prossimo anno accademico Verona sarà una delle prime università in Italia completamente a numero chiuso. L’accesso programmato interesserà i corsi di laurea triennali e magistrali a ciclo unico. Una decisione legata a una miglior gestione degli spazi, ma soprattutto della didattica, che punta a essere più competitiva. Il professor Tommaso Dalla Massara è delegato all’orientamento e alle strategie occupazionali dell’ateneo.
– In Italia il numero di persone con un titolo di istruzione elevato è inferiore alla media europea. Da molti giovani però la laurea non è più vista come un investimento: un po’ perché dopo si trovano a fare un lavoro poco coerente col titolo conseguito, un po’ perché occorrono anni per farla fruttare in termini di carriera e stipendio adeguato. Il titolo di laurea in sé che valore ha?
«Smentisco l’idea che la laurea non serva. I dati mostrano che invece nel tempo la capacità reddituale dei laureati aumenta. Certamente allunga il periodo della formazione, però questo non è un dato che ci sorprende, perché in tutti i Paesi con economie avanzate il periodo di formazione è medio-lungo; non a caso si parla di formazione continua. Bisogna capire su quale piano ci vogliamo mettere: Italia e Nord-Est puntano a essere un distretto produttivo o un luogo di economia avanzata? L’Europa ha spostato il suo centro sempre di più verso est: Paesi che un tempo erano solo centri di produzione ora hanno alti tassi di competenza, non si può quindi rinunciare a una formazione elevata. Il tema, semmai, diventa quello dell’orientamento: identificare il percorso di laurea adeguato, per evitare gli abbandoni».
– Qui si inserisce il numero programmato?
«È una scelta fondamentale di ateneo, perché crediamo debba essere fatta a monte un’attenta valutazione del percorso da intraprendere. Inoltre ci permetterà di garantire una qualità massima: se sappiamo di avere 100 o 200 posti a disposizione, la didattica sarà tagliata maggiormente a misura di studente. L’obiettivo è farla diventare il più possibile laboratoriale, non solo per i percorsi scientifici. Prendiamo ad esempio Giurisprudenza: un tempo c’era la lezione frontale di un docente che parlava all’aula in ascolto; ora si sta trasformando, con esercitazioni di scrittura, simulazioni processuali e relazioni basate su casi veri, per avvicinare gli studenti al contesto in cui si troveranno dopo qualche anno».
– A chi sostiene che oggettivamente una laurea in Filosofia è meno spendibile di una in Informatica o Ingegneria, come ribatte?
«Questa contrapposizione è un grande classico. Tutti i percorsi di laurea possono essere validi a livello di placement nella misura in cui sono orientati con attenzione al dopo laurea, aprono a prospettive in chiave internazionale e possiedono capacità innovative. Se ci sono questi elementi tutti i percorsi possono dare sviluppi. Penso a Matematica: un tempo era solo una fucina di insegnanti, oggi è diventata qualcosa di diverso, come con gli interessanti sbocchi legati alla Matematica applicata alla finanza».
– Come si può rendere spendibile quanto prima il titolo di laurea? Iniziando con stage, tirocini ed esperienze all’estero finché si è in corso?
«Assolutamente sì. L’Università di Verona registra dati occupazionali molto buoni per i propri laureati e uno dei segreti del successo sono gli oltre 10mila enti e aziende accreditati. Gli stage curriculari permettono di far entrare in contatto gli studenti col mondo del lavoro prima della laurea; non necessariamente poi il neolaureato andrà a lavorare lì, ma di sicuro si sarà fatto un’idea più precisa».
– In che modo l’Università è impegnata a far incrociare meglio l’offerta formativa con la domanda di figure ricercate dal mondo del lavoro?
«Il grande appuntamento annuale è con “Univerò”, il festival del placement in programma a ottobre. È un momento aperto alla cittadinanza e agli imprenditori, che entrano nei nostri spazi per reclutare potenziali figure da inserire nelle loro realtà. C’è un interesse che cresce negli anni, grazie al fatto che Verona è riconosciuta in maniera stabile come un’università prestigiosa e competitiva a livello nazionale».
Adriana Vallisari

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