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Francesco, da Manerba ad Haiti tra la sofferenza degli ultimi

di FRANCESCO OLIBONI

Accordo tra le Caritas scaligera e ambrosiana porta un ventenne in... prima linea

Parole chiave: Haiti (1), Manerba (3), Caritas (60), Servizio Civile (10), Mondialità (2), Covid-19 (89), Storie (23)
Francesco, da Manerba ad Haiti tra la sofferenza degli ultimi

di  FRANCESCO OLIBONI

Caritas è sempre vicina alle famiglie, al territorio in cui opera, alle persone che vivono nella grave marginalità. È sempre attenta alle emergenze e alle situazioni di disagio che, grazie ai suoi osservatori, tiene costantemente monitorate. Ma in pochi sanno che ha anche tutto un settore dedicato alla mondialità, all’attenzione verso quelle situazioni di estrema povertà e alle crisi umanitarie che si possono trovare anche dall’altra parte del pianeta.

Uno di questi ambiti, riguarda il servizio civile internazionale con Caritas. Non viene organizzato direttamente da Caritas diocesana veronese, la quale però può indirizzare i giovani interessati verso realtà vicine per permettere a tutti di vivere anche questo aspetto missionario del proprio mandato.

E così è accaduto l’anno scorso con Francesco Tonoli, giovane 20enne della parrocchia di Manerba sul Garda. «Finita la maturità volevo vivere un’esperienza missionaria – ci racconta – e dopo una serie di valutazioni, ho chiesto informazioni a Caritas Verona che mi ha indirizzato a Caritas Ambrosiana per il servizio civile internazionale. Ho fatto un concorso con loro, ma purtroppo non mi hanno preso. Poi a dicembre 2019 la Provvidenza mi è venuta in soccorso: mi hanno chiamato con urgenza a causa del ritiro di una partecipante e mi hanno comunicato che sarei partito per Haiti».

Caritas Ambrosiana ha una serie di progetti all’estero, come Nicaragua, Moldavia, Kenya, Libano e appunto Haiti. «La formazione con gli altri 12 ragazzi italiani pronti a partire come me è stata molto intensa. Le parti tecniche, relazionali, le testimonianze, ma anche cosa significa lo stile Caritas. In quel mese a Milano ho imparato tantissimo. E ci hanno fatto capire fin da subito che la nostra era una esperienza di scambio tra Chiese: quindi sarebbe stato un anno di servizio civile utile sia per le persone incontrate nel nostro cammino, sia per la comunità che ci inviava, nel mio caso Manerba». Che ha accolto con gioia questa partenza: «Hanno organizzato una Messa di mandato con consegna del cero e poi una festa di saluto. Io sono animatore del gruppo adolescenti della Valtenesi, quindi ho condiviso la partenza con i miei ragazzi e anche per loro il mio invio è stato un momento forte».

La partenza insieme ad un’altra ragazza italiana, Elena di Lecco, il primo mese ad Haiti, il contatto concreto con la missione, finché un giorno anche ai Caraibi arriva quella parola: Covid. Cosa è successo in quei momenti? «Nessuno ad Haiti sapeva cosa fosse il virus e per noi era una cosa inimmaginabile. Quel giorno eravamo per la prima volta in gita con gli altri volontari di Caritas: ci stavano portando al mare. Mi ricordo che arrivò una telefonata a cui non volevamo credere: domani si torna in Italia, ordine della Farnesina! Noi non avevamo salutato nessuno, eravamo lontani dalla sede della missione. Sono venuti a prenderci con l’elicottero dell’Onu con piloti russi, ci hanno condotto d’urgenza in capitale, dove qualcuno aveva già portato le nostre valige. Stavano chiudendo tutti gli aeroporti del mondo. Noi non capivamo nulla e nessuno sapeva darci risposte. Ci hanno dato un biglietto aereo con arrivo a Zurigo e con la speranza di riuscire a prendere tutti i voli programmati e il 19 marzo 2020 siamo partiti per l’Italia. Se ci penso ancora oggi, mi sembra tutto folle. Il viaggio poi: a Miami abbiamo recuperato le altre due volontarie del Nicaragua, poi Città del Messico che era nella confusione più totale, poi Madrid, dove l’aeroporto era deserto e spento, non c’era nessuno se non noi. Infine Zurigo, dove abbiamo preso un treno per tornare a casa. Un viaggio di quattro giorni con la paura più totale di non farcela, senza contare il timore per quel Covid che nessuno conosceva».

Torniamo a parlare dell’esperienza con Caritas Ambrosiana. Haiti, Paese dei Caraibi con 11 milioni di persone, è la parte povera dell’isola di Hispaniola, accanto alla Rep. Dominicana molto più ricca e turistica. «Haiti è una piccola Africa. Tra l’altro io sognavo un’esperienza missionaria in Africa e mi sono trovato in un Paese in cui il 75% della popolazione discende dagli schiavi africani qui deportati nei secoli. Un contesto poverissimo, dove la mentalità legata alla schiavitù è ancora molto presente. Il progetto Caritas è in un villaggio su un altopiano un tempo boscoso e oggi brullo a causa delle multinazionali del carbone. Le strade sono sterrate e non si arriva al villaggio via terra, abbiamo dovuto prendere un aereo scassato e minuscolo. Era il primo progetto di Caritas Ambrosiana in quel contesto, con case in argilla, tetti in paglia, acqua da prendere al pozzo, niente fogne né corrente elettrica. Noi vivevamo nell’oratorio della parrocchia di Ka Philippe, ospiti di don Levi, il sacerdote fidei donum della diocesi di Milano con cui è stato condiviso il progetto. In 40 giorni abbiamo visitato molte delle venti cappelle della parrocchia, abbiamo studiato la lingua, siamo stati con bambini e nelle comunità. Abbiamo scoperto un mondo nuovo, senza scuole, se non quelle parrocchiali, e senza ospedali, se non nella capitale. Nelle cappelle c’erano dei piccoli centri di salute seguiti spesso da Caritas Internazionale. Una realtà incredibile che mai dimenticherò».

E il ritorno a casa? «55 giorni di quarantena che mi sono serviti per raccogliere le idee. Ovviamente grande delusione per gli amici lasciati senza nemmeno salutare, anche perché stava nascendo qualcosa di bello. È stato un assaggio di missione che mi è servito per davvero. Ora mi sono iscritto all’università a Brescia, continuo l’impegno in parrocchia, con gli adolescenti della Valtenesi e con il Cpag della diocesi di Verona. Ma spero di ripartire, perché la missione ce l’ho nel cuore anche grazie alla mia famiglia che me l’ha fatta vivere fin da bambino. Ora mi piacerebbe attivare qualcosa legato all’animazione missionaria per i giovani qui in Valtenesi. Nel frattempo dalla finestra guardo il lago di Garda che mi ricorda la mia finestra di Haiti, dalla quale in lontananza vedevo il mar dei Caraibi. Non è la stessa cosa, ma mi permette di sognare». 

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