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«Difendo il femminismo cancellato dalla moda Lgbtq+ e da chi ci specula sopra»

di ADRIANA VALLISARI
La giornalista Terragni: resistiamo ma sta vincendo un'esigua minoranza 

«Difendo il femminismo cancellato dalla moda Lgbtq+ e da chi ci specula sopra»

di ADRIANA VALLISARI
Otto marzo, festa della donna. In un mondo che spinge verso l’autoproclamazione della propria identità sessuale, si può ancora dire “donna” senza essere linciati? Ne parliamo con Marina Terragni, giornalista e scrittrice, nonché femminista gender critical, ossia contraria all’autocertificazione di genere, il cosiddetto “self-id”, secondo cui ci si può definire uomo o donna a prescindere dal corpo con cui si è nati. Per questo, Terragni è spesso presa di mira da esponenti della comunità Lgbtq+ (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, ecc.).
– Cos’è il femminismo nel 2022? È una categoria che ancora resiste?
«È resistentissima. Non c’è più il movimento delle donne degli anni ’70, di massa, ma oggi i temi di mobilitazione sono tanti: economia, lavoro, salute delle donne, identità di genere, transizione di genere dei minori, violenza domestica, maternità, legge 54/2006 sull’affido condiviso, politica, ambiente e sport (delle donne transessuali che gareggiano negli sport femminili, vincendo a man bassa, nessuno parla)».
– Si può ancora parlare di pari opportunità delle donne o stiamo andando più verso le pari opportunità del mondo “arcobaleno”?
«La seconda. Tutti gli uffici e gli istituti di pari opportunità sono dedicati prevalentemente ai diritti Lgbtq+. Rappresentano un target anche elettoralmente affascinante».
– In questo periodo storico si discute molto di fluidità sessuale. J.K. Rowling, l’autrice di Harry Potter, è stata ostracizzata e accusata di transfobia (avversione nei confronti dei transessuali, ndr) perché ha osato dire che esistono soltanto due generi, maschile e femminile, e che solo le donne possono fare figli. Non si starà esagerando?
«Non è questione di esagerazione. C’è un mercato che fa profitti su questo. Le cose poco chiare si spiegano così: col flusso di denaro che movimentano. Ne parliamo spesso sul sito feministpost.it. Le donne una volta erano il target del business, oggi sostituito dal mondo Lgbtq+, che richiama più interesse».
– I dibattiti culturali sono diventati talmente tossici da invocare la cancellazione di chi la pensa diversamente, la censura, l’ostracismo. Non ci si può più qualificare come femmina o maschio per non urtare la sensibilità altrui... Arriveremo ad autocensurarci per evitare che qualcuno si senta offeso?
«L’autocensura è già in corso: nelle università, sui giornali e soprattutto all’interno del mondo Lgbtq+, dove vige la logica del “cane non mangia cane”. In Inghilterra Stonewall, storica associazione sorta per tutelale i diritti di gay e lesbiche, oggi comitato d’affari al servizio della lobby trans, ha dato mandato di “non dibattere”. Hanno convenienza a tacere, perché i loro argomenti si smontano in 5 minuti; infatti, là c’è un’onda contraria sempre più forte. Ora è il Sud Europa a essere sotto attacco: la Spagna ha in discussione una legge sulla libera autodeterminazione di genere, per cui basta che una persona vada all’anagrafe per cambiare nome e sesso, senza necessità di mostrare referti medici o terapie ormonali in corso; in Francia, invece, è passata una legge terribile, per cui i bambini possono essere tolti ai genitori che oppongano qualche resistenza al cambio di sesso».
– Qui abbiamo avuto il dl Zan. Perché è un bene che non sia passato?
«Abbiamo sperimentato anche noi la linea del “non dibattito”: tutti i sostenitori del dl Zan si sono sottratti a ogni confronto. Si voleva far passare una cosa indigesta (l’introduzione dell’identità di genere) velata da cosa digeribile (il contrasto alla violenza contro le persone omosessuali e trans, su cui nessuno ha niente da ridire). Il decreto aveva tanti difetti: primo, si trovava la misoginia dentro a una legge, come se le donne fossero una minoranza; secondo, introduceva l’identità di genere: ma non si capiva cosa fosse e quindi quando si commetteva il reato, togliendo la certezza del diritto; terzo, introduceva la formazione Lgbtq+ nelle scuole, quando persino l’Inghilterra l’ha tolta. Si vuole una legge sull’omotransfobia? Ci sarebbe già: è il ddl Scalfarotto, che allarga la legge Mancino agli atti violenti e discriminatori accompagnati da un’espressione di disprezzo. Fine. In realtà quello che il ddl Zan intendeva introdurre, senza un vero dibattito, era l’autocertificazione di genere o “self-id”».
– Ma non stiamo parlando di numeri esigui?
«I transessuali veri e propri sono una minoranza, ma se si usa la parola transgender si amplia il potenziale mercato. Sono rimasta impressionata leggendo del liceo artistico statale di Brera, a Milano, dove di recente è stata introdotta la “carriera alias”, per permettere a chi ha intrapreso un percorso di transizione di genere di cambiare il nome sui documenti scolastici. La preside parlava di una ventina di studenti e studentesse coinvolti, una percentuale altissima. D’altronde in Italia si può bloccare la pubertà, lo sa vero? E anche i cattolici devono guardarsi allo specchio».
– Che intende?
«Quando il Comitato nazionale per la bioetica ha votato per dare gli ormoni a bambine di 9-10 anni (consentendo l’uso della triptorelina, farmaco bloccante la pubertà, ndr) l’unico voto contrario è stato quello di Assuntina Morresi. Questi trattamenti ormonali producono effetti irreversibili, anche quando si cambia idea e si vuole tornare indietro; la propaganda invece, che deve procurarsi una clientela presto, l’ha sempre negato. In ballo ci sono somme enormi di guadagno per l’industria farmaceutica. Se è vero che ognuno nella vita fa quel che vuole e che c’è una libera significazione della propria differenza sessuale, questo però non significa non accettare il proprio sesso e il proprio corpo: il corpo non è mai sbagliato, salvo in alcuni casi rarissimi di disforia».
– Tra l’altro l’adolescenza è un periodo di grande trasformazione, ci siamo passati tutti... La questione dello stare bene con sé stessi è complicata dai modelli che passano sui social?
«Le giovani generazioni vivono una vita definita on life, dove reale e virtuale si intrecciano in modo inestricabile. Occorre trovare il linguaggio giusto per arrivare a loro e ogni social ha la sua grammatica. Non si può liquidare la questione dicendo “leggi un libro anziché andare su TikTok”, bisogna stare in quell’agone lì. Noi vediamo delle ragazzine che partecipano alle nostre riunioni femministe quasi di nascosto, perché hanno molta paura di essere isolate dal gruppo dei pari e di essere bollate come bigotte o transfobiche».
– Venendo alla dimensione sociale delle donne in Italia: siamo noi che ci auto-estraniamo dalle questioni importanti? Stiamo lontane dalla politica, non votiamo altre donne. Perché non riusciamo a esprimere una Angela Merkel o una Ursula von der Leyen?
«Da noi ha prevalso il discorso della parità e delle quote rosa, meccanismi che producono la cooptazione delle ubbidienti e non portano – mi si passi il termine – il “rompicoglionismo” della differenza femminile. Quello è un altro sguardo sul mondo, sono altre agende politiche, altri modi di gestire le cose».
– Il top è stato l’appello “una donna al Quirinale”, una qualsiasi, senza aggiungere nomi: che ne pensa?
«Uno spettacolo avvilente. “Una donna” è il ritornello, ma poi non la fanno passare. Le donne che hanno una personalità ci sono, ma nella dinamica delle correnti sono terrorizzate di non essere ricandidate e dentro ai partiti si scannano tra loro. Qualcuna ogni tanto si smarca da queste logiche, batte i pugni, ricordandoci che la differenza femminile è la differenza del governo del mondo. Mi è dispiaciuto che ai tavoli di trattativa per fermare il conflitto in Ucraina, nei giorni scorsi, non ci fosse neanche una donna, magari proprio la Merkel, che sarebbe la più titolata».
– Forse perché sono gli uomini a fare la guerra.
«Tutto si può dire, tranne che la guerra l’abbiamo inventata noi. Mi sembra un’altra prova che c’è bisogno dello sguardo delle donne sulle cose del mondo».
– L’Ucraina è pure la capitale dell’utero in affitto in Europa; altro tema su cui lei si batte da anni.
«Sì, e un’altra faccia della tragedia di questi giorni, sottaciuta, è la corsa a far uscire le ragazze incinte dal Paese, per tenere al sicuro l’investimento. Guardando a casa nostra, il 21 e 22 maggio arriverà a Milano “Un sogno chiamato bebè”, una fiera dell’utero in affitto organizzata per la prima volta in Italia, in barba alla legge: stiamo alzando un polverone per fermarla».
– A proposito di madri. La pandemia è stata pesante per le mamme lavoratrici. Quando arriveremo a servizi davvero funzionali per le donne?
«Quando saremo grati a quelle che decidono di diventare madri, non considerandole le reiette della società, ma mettendole al centro. Possiamo parlare di conciliazione e di altre cretinate con cui ci stiamo baloccando da decenni: tutto sarà destinato a fallire finché non riconosceremo che il soggetto di ogni civiltà è la madre con il figlio, quel “sì” che la donna può dire. Quel “sì” che perfino Dio ha aspettato, come ci ricorda il fiat di Maria». 

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