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L’alta Valpantena che fu la ritrovi dentro un libro

di MARTA BICEGO
Raccolta di Angelo Andreis dei racconti di testimoni ormai in... estinzione 

L’alta Valpantena che fu la ritrovi dentro un libro

di MARTA BICEGO
Aveva un “debito morale” Angelo Andreis. Trasferire sulle pagine bianche di un libro le testimonianze raccolte, vent’anni fa, direttamente dalle voci di tanti anziani nei territori di Sant’Anna d’Alfaedo, Erbezzo, Bosco Chiesanuova e Cerro. Parole preziose e preghiere, aneddoti e usanze, ricordi personali e familiari, espressioni dialettali e filastrocche, indovinelli e giochi, che nella fretta della modernità rischiavano di essere cancellati. In parte, li ha racchiusi l’anno scorso nella pubblicazione dedicata alla religiosità popolare. E adesso, per riuscire finalmente a saldare quel “debito”, ha consegnato alle stampe il libro Tradizioni popolari in alta Valpantena (Gianni Bussinelli editore). Altra miscellanea che descrive la vita della gente che popolò l’alta Valpantena negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Omaggio al mondo contadino. Tentativo di salvare, quel che si può, di un mondo perduto, in un excursus che spazia dai primi momenti della vita all’età del matrimonio, dal duro lavoro nei campi al tempo trascorso attorno alla tavola, dai banchi di scuola all’altra parte del mondo per quanti, con la valigia di cartone, furono costretti ad emigrare per cercare fortuna.
Dalla culla
Fioi e nissoi no i è mai massa, figli e lenzuola non sono mai troppi. Questo detto era alla base di ogni famiglia, perché nei campi servivano braccia da destinare all’agricoltura e il matrimonio poteva rispondere a questa esigenza. Dalla nascita all’accudimento. Scongiurando, ovviamente, che il nascituro fosse sano. Fa sorridere leggere di rudimentali, me nemmeno poi così tanto, manovre di disostruzione delle vie aeree da adottare con il neonato: s’el buteléto el naséa col fià, gli si davano piccole slèpe (sberleffi) sulla faccia o sulla schiena oppure lo si metteva con le gambe in su e la testa in giù. Fa divertire ritrovare suggerimenti per alleviare il fastidio delle scottature: bastava prendere la corteccia interna del tiglio e farla bollire, usandola poi per degli impacchi una volta raffreddata. Per far passare il mal di testa, addirittura si legavano con un fazzoletto delle fette di patate alla testa della creatura. Ma la medicina più potente era considerata la preghiera, la devozione verso la Madonna o il votarsi a qualche santo. Altri trattamenti, pseudo-sanitari, erano riservati agli adulti. Ecco che, per gli ematomi, si usava massaggiare con dell’olio, conservato in una piccola bottiglia, preparata nel giorno di san Giovanni; per il male agli occhi si ricorreva alla camomilla mentre per il fastidio ai denti si trattava la parte dolorante con quelle foglie di sambuco che oggi noi utilizziamo per i nostri aperitivi...
Ai fiori d’arancio
Altri tempi. Basta scorrere una dopo l’altra le curiosità che riguardano le tradizioni legate a fidanzamenti e matrimoni. Quando la mancanza di mezzi di trasporto non rendeva affatto facile agli aspiranti mariti andare alla ricerca di butèle con le quali convolare a nozze. C’erano addirittura gelosie tra paesi quando troppi ragazzotti sconfinavano dal proprio comune per sottrarre le fanciulle più belle. Le occasioni di incontro non erano frequenti, bisognava sfruttare qualsiasi opportunità né tantomeno esistevano i social network a facilitare la conoscenza di qualche “buon partito”. Allora si frequentavano la navata della chiesa, la sagra e i filò; i luoghi di lavoro, qualche festa da ballo organizzata in una stalla o nelle piazze o i sentieri, sui quali durante il tragitto talvolta poteva scoccare la scintilla. Come doveva essere la donna ideale? Qui le raccomandazioni sono chiare: vanno dalle classiche richieste che la piasa, che la tasa, che la staga ‘n casa (cioè doveva piacere, tacere e controllarsi nelle espressioni, non uscire di casa) al requisito delle quattro b di bela, bona, braa e con tanti bessi, vale a dire che la ragazza doveva essere bella, buona, brava e... magari con tanti soldi. Se scattava alla fine l’amore, niente fidanzamenti troppo lunghi: lo suggeriva pure il prete ai fidanzati che tardavano nel chiedere la mano dell’innamorata. E quando si sceglieva la data del matrimonio, il giorno più gettonato per pronunciare il sì era il sabato. Perché? Né de vendri né de marte no se se sposa né se parte.
Dal lavoro
C’è da perdersi tra le tantissime informazioni che contiene il libro: una sorta di enciclopedia della quotidianità dei nostri avi che dovrebbe essere custodita nella libreria di ogni abitazione. Per ricordare come eravamo e ragionare (magari) su dove stiamo andando. Attraverso le voci degli anziani, l’autore dedica spazio alle attività lavorative che nel territorio lessinico erano legate ai pascoli in cui raccogliere il fieno o i cereali come grano, orzo e mais; ai boschi dai quali ricavare legna, agli allevamenti. Senza badare troppo a perdite e profitti. Per quel che si poteva, ci si arrangiava in casa, per esempio nel confezionare capi di abbigliamento: già che era fatta con le proprie mani, una cosa acquisiva valore e non si sprecava nulla. Altro monito, da far valere pure ai giorni nostri. Pensando a quei lavori scomparsi o che stanno finendo nell’oblio: dal maniscalco specializzato nella ferratura dei cavalli o dei buoi, al moléta (l’arrotino) che arrivava a piedi o in sella alla bicicletta nelle vie dei paesi; dal parolòto (lo stagnino) all’ombrelar (l’ombrellaio), senza dimenticare il caregar che aggiustava caréghe, caregoni e careghéte.
Alle aule
Altroché tablet e lavagne digitali o comodi autobus. Già il fatto di raggiungere la scuola, per qualche alunno residente in una remota contrada, era un’avventura da affrontare sfidando pioggia, vento e soprattutto la copiosa neve in inverno. E annessi geloni alle mani (diaoleti) o ai piedi (buganse). Fortunatamente il carico che gli studenti dovevano portare sulle spalle era leggero: uno o due libricini, l’abbecedario e il sillabario, una penna e due quaderni, tra righe e quadretti all’interno di una busta di tela o stoffa. Le aule erano semplici: banchi di legno, cattedra e lavagna nera a doppia faccia da far ruotare a seconda delle necessità per scrivere con il gesso sillabe, vocaboli o conti. Nascosta nel cassetto del maestro o della maestra, la bacchetta serviva per imporre agli alunni meno diligenti in po’ di disciplina.
Qui, forse, qualcuno avrebbe da ridire... Frammenti di storia, eventi curiosi e dolorosi. Ne descrive diversi, Angelo Andreis: riporta per esempio il racconto di Maria Scala sulla terrificante ritirata dei tedeschi nei dintorni di Praole o le malefatte perpetrate dai fascisti; ricorda quando il parroco di Rosaro, don Annibale Cordioli, per costruire il nuovo campanile voleva che le famiglie della frazione di Praole cedessero la campanella dell’oratorio della contrada per fonderla assieme. Una richiesta non assecondata, ma il campanile della parrocchiale fu comunque ultimato, segno che paesani e prete trovarono il modo di métarla ’n moia, cioè di sedare il diverbio, o per farla ancora più sbrigativa di… petarla lì. Di modi di dire, pure più colorati, se ne trovano tantissimi. Assieme a proverbi e indovinelli, filastrocche e tiritere da recitare. Assieme a giochi più o meno conosciuti per far divertire i più piccoli. Agli adulti, adesso, basta tenere a portata di mano il volume e lasciarsi accompagnare in un passato nemmeno tanto remoto. Da osservare, per certi versi, con una punta di nostalgia

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