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La lunga storia del Lazzaretto deve ancora scrivere quella futura

di FRANCESCA SAGLIMBENI
Università e Fai insieme per il recupero di un’area preziosa per la città

La lunga storia del Lazzaretto deve ancora scrivere quella futura

di FRANCESCA SAGLIMBENI
Da luogo di cura degli appestati a deposito di munizioni belliche; dallo stato di completo abbandono al recupero di un bene storico culturale di grande valore identitario, da qualche tempo tornato alla fruizione pubblica, perlopiù tramite rassegne estive o eventi occasionali. Ma con tutto il potenziale per una piena restituzione ai cittadini.
Il Lazzaretto di Verona tra ieri, oggi e… domani, si racconta in una poderosa monografia scritta a quattro mani dal Fai (che dal 2014 ha in gestione l’intero sito) e l’Università di Verona (Dipartimento di Culture e civiltà), venuto alla luce in questi giorni; oltre a proporsi come una fonte documentale-divulgativa accessibile tanto ai cultori della materia quanto ai meno addetti ai lavori, rappresenta il punto di approdo della collaborazione siglata tra i due enti autori, nel 2015. Una convenzione volta alla valorizzazione del tempietto simbolo del parco dell’Adige (ma non solo), che in questi anni ha impegnato docenti e giovani ricercatori dell’ateneo scaligero finanziati da borse di studio messe a disposizione dallo stesso Fai, in uno studio sul campo di approccio multidisciplinare, volto a ricostruire il tessuto socio-antropologico di epoca in epoca legato a quel lembo di territorio.
Presidio sanitario per i malati contagiosi, sorto alla fine del Cinquecento in un’ansa dell’Adige a breve distanza dal centro città, su progetto (come ipotizza il Vasari) dell’architetto veronese Michele Sanmicheli, il Lazzaretto fu teatro della peste manzoniana del 1630, poi ospedale militare in epoca napoleonica e deposito di polveri e munizioni durante la Seconda Guerra mondiale. Nel 1945, un’esplosione mandò in rovina gran parte della monumentale costruzione, la quale cadde nell’oblio e nel degrado. Fino alla segnalazione di un gruppo di volontari al Fai, e quindi al citato sodalizio.
Già con il passaggio al Fai, a fine 2014, l’area diviene oggetto di un’operazione di pulizia generale e di liberazione dalla vegetazione infestante, e di rilievo, oltre che di bonifica da ordigni bellici. Dai cantieri riaffiorano due lacerti della pavimentazione originale (in mattoni e ciottoli) delle cellette in cui venivano accolti i contagiati. Ritrovamento che dà input a ulteriori ricerche, volte a rispolverarne l’originaria identità e al contempo “svelarne” le molteplici potenzialità. «Così abbiamo riscoperto il paesaggio, con i vari mutamenti del corso dell’Adige, l’architettura e l’archeologia del luogo nelle diverse età; e ancora, la storia dell’arte, ma anche – e soprattutto – la storia dell’uomo, e quindi come e dove venivano curati i malati, ricoverati in cellette tutte di eguali dimensioni, ciascuna munita dei servizi essenziali di bagno e cucina proprio per garantirne l’autosufficienza: condizione essenziale per l’isolamento dei contagiati», spiegano i curatori del volume Patrizia Basso, coautrice, insieme a Daniela Bruno, Gianmaria Varanini e Matteo Annibaletto. Che riferiscono anche del ritrovamento dei registri dei malati, degli inventari di cantiere del complesso, degli elenchi con nomi delle maestranze e materiali costruttivi impiegati. Riportando altresì i proclami cittadini che invitavano i viandanti e le loro merci, provenienti da luoghi pestilenziali, a fermarsi qui per la quarantena e a utilizzare questo luogo come sorta di dogana sanitaria.
Senza cadere nella retorica della “storia che si ripete”, «nel riscoprire l’organizzazione delle 152 celle di cui si componeva il Lazzaretto, non si può tuttavia non cogliere lo stesso stato di isolamento che in questi due anni ci ha toccati tutti», commenta Guido Beltramini, direttore del Palladium Museum, addentrandosi in un interessante parallelo con analoghe architetture palladiane, accomunate da una funzione utilitaria, o meglio “sociale”. «Di questo il Lazzaretto è una testimonianza molto affascinante. Oggi siamo abituati alla figura dell’archistar, del famoso architetto che viene interpellato essenzialmente per dare all’edificio un’area spettacolare, con finalità estetica. Qui siamo al cospetto di un architetto, il Sanmicheli – per me ancora l’ipotesi più accreditata, anche di fronte all’attestato passaggio di diversi altri capimastri veronesi –, il quale aveva in mente un progetto ben preciso, di cui abbiamo anche un disegno (che allude a una pianta quadrata, ndr), evidentemente svilito dai successori». Il tempio segue una logica radiale, ovvero convergente verso il centro. «Tipico del Sanmicheli – ribadisce Beltramini –. Il centro della chiesa del Lazzaretto, l’altare, doveva a sua volta essere visibile da tutti i lati, per questo era trasparente, aperto verso tutti».
Luogo di cura del corpo, dunque, al pari dell’anima. «Le 12 colonne, poi, ricordano il monoptero romano, tempio costituito da un semplice colonnato circolare». Il che lascia presumere un collegamento, più che con gli apostoli, con i segni zodiacali. A sostegno della tesi, un commento di Daniele Barbaro a Vitruvio, il quale scrive: “Partisco la circonferenza del minor giro in 12 parti, per porvi 12 colonne, per i 12 segni dello Zodiaco. Perché io credo che quel tempio senza pareti significhi e, significasse alcune cose del cielo”. In fondo, prosegue l’analisi di Beltramini, «che cos’era il Lazzaretto? Un mondo “rovinato”, ma anche una città “ordinata”. E cioè il contrario della città reale, dove il morbo nasce e si diffonde. Costruire un complesso residenziale così preciso, con attenzione alla luce, ai comfort di ogni persona isolata, in una parola all’igiene (perno dell’urbanistica ottocentesca), poteva solo significare voler trasformare una città vera in un luogo ideale, in qualche modo protetto dalle stelle. Un racconto coinvolgente, cui si unisce il tassello di Annamaria Conforti, storica dell’arte del Fai, Delegazione di Verona: «Parliamo del recupero di un’importante architettura, felicemente inserita in un contesto naturale, tra lo scorrere dell’Adige e i campi coltivati. Un’area che va riqualificata e restituita alla città nel suo intero insieme. Come luogo di autentica armonia». 

La lunga storia del Lazzaretto deve ancora scrivere quella futura
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