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Ricostruire la Siria: la speranza delle comunità cristiane

Fra Bahjat Karakach: «La guerra non è finita, ma ora si può iniziare un percorso di dialogo e noi saremo parte attiva»

Parole chiave: Karakach (1), Sant'Adalberto (1), Siria (14)
Ricostruire la Siria: la speranza delle comunità cristiane

“Ricostruttori di città distrutte. La Siria oggi, le macerie e la speranza” è il titolo dell’incontro organizzato dal Centro culturale Sant’Adalberto di Verona nell’auditorium del palazzo della Gran Guardia giovedì 16 novembre, con la partecipazione di fra Bahjat Karakach, frate francescano siriano, guardiano e parroco del convento della Conversione di San Paolo a Damasco; e di Mario Mauro, senatore, già ministro della Difesa e vicepresidente del Parlamento europeo. A margine della serata abbiamo posto alcune domande a padre Bahjat.

– Tra le macerie di una guerra che ha devastato gran parte della Siria, in un contesto di dimenticanza e di chiara responsabilità di nazioni e interessi, è ancora possibile trovare i segni della rinascita?
«La guerra non è ancora finita. Ma oggi c’è più speranza che finisca presto. Il fronte c’è ancora, anche se le zone sotto il controllo dei ribelli si sono ridotte di molto rispetto a due anni fa. Il lavoro più impegnativo adesso sarà disinnescare il conflitto che è rimasto come ferita profonda nella mentalità di tanti siriani. E questo sarà un lavoro lungo e paziente. Tutto quello che c’era di ricchezza espressa in mille differenze etniche, culturali e religiose, oggi corre il grande pericolo che si trasformi in conflitto civile, scontro, diffidenza reciproca. Qualcuno ha giocato su queste differenze e ha voluto esaltarle, mentre prima questo non c’era. Noi speriamo che, appena finisce la guerra, le cose tornino come prima anche se ci vorrà molto impegno da parte di tutti».

– Dunque la guerra in Siria non è dei siriani, ma di altri che hanno interessi economici e politici; una guerra subita dalla popolazione. E dal punto di vista politico cosa sta succedendo?
«La maggior parte dei siriani oggi ha capito che questa guerra è stata inutile, quindi la maggior parte delle persone vuole tornare a dialogare e a ricostruire il Paese. Ci sono alcuni gruppi che resistono, purtroppo; sono finanziati da parti esterne che vogliono fomentare il conflitto. Ma torno a dire che oggi c’è più speranza: si avverte che c’è un orizzonte, mentre uno o due anni fa era più difficile intravvederlo. Oggi, in modo particolare si sta lavorando molto sulle riconciliazioni. In alcune zone il governo promuove accordi di riconciliazione in cui si estende la sovranità dello Stato in determinati territori stipulando accordi e compromessi che garantiscano alla popolazione un minimo di stabilità, sicurezza e servizi sociali».

– La comunità cristiana in quali condizioni si trova oggi e quali prospettive vede davanti a sé?
«Sicuramente il numero dei cristiani al termine di questo conflitto uscirà più che dimezzato, anche se purtroppo non ci sono statistiche. Abbiamo perso molti dei nostri fedeli e intere zone sono state “svuotate” della loro presenza. Ma pur essendo una comunità molto piccola, è molto attiva e qualificata, capace di portare comunque un messaggio diverso. Siamo rimasti gli unici capaci di dialogare con tutti. I cristiani di solito qui non hanno mai usato la violenza e questo è tutto a nostro vantaggio perché ci permette di entrare nel cuore di tutti e quindi essere un fattore di pace riconosciuto da tutte le componenti della nostra società».

– La tradizione cristiana in Siria è antichissima e nonostante i danni inferti dal conflitto non ha perso la sua natura missionaria e inclusiva...
«Tutti sappiamo che quando san Paolo è caduto da cavallo, cioè nel momento della sua conversione a Cristo, c’era già una comunità cristiana a Damasco che lo ha accolto e da lì è ripartito come apostolo delle genti. La cattolicità, in senso etimologico, noi ce l’abbiamo nel nostro Dna».

– Che cosa chiedono oggi i cristiani a coloro che hanno in mano le sorti della Siria? E che cosa chiedono agli altri Paesi occidentali che hanno nelle loro radici la tradizione cristiana?
«I cristiani chiedono quello che chiederebbero tutti i siriani: che la Siria torni ad essere quel Paese bello che era, e che continui ad esserci un posto per tutti come c’era prima. Ai cristiani del mondo, e in particolar modo a quelli europei, chiedono di non dimenticarsi delle proprie radici. Noi siamo stati la prima comunità cristiana che si è aperta al mondo pagano; e se ci sarà ancora una comunità cristiana in Siria, sarà la garanzia non solo di una memoria storica, ma anche di un futuro di inclusione possibile».

– La parola più bella, che ha ripetuto più volte, è “speranza”. Quali sono le cose concrete che vi danno questa speranza?
«Mi dà speranza vedere che c’è gente che, pur nella sofferenza, fa qualcosa di socialmente utile. Riporto l’esempio di una madre che ha perso una figlia di 14 anni, uccisa da un cecchino; questa madre ha deciso di studiare al posto della figlia, di fondare un asilo nido e di insegnare ai bambini ad amare la Siria. Ci sono, poi, persone che mettono del loro tempo ed energie per aiutare i bambini e i ragazzi nelle cure post-trauma dopo la guerra. Infine tutte le persone che, pur tra mille difficoltà, decidono di rimanere nel loro Paese. Noi francescani abbiamo un progetto ambizioso: creare un centro culturale nel santuario di Sant’Anania che sia in dialogo e aperto a tutti. Questi sono alcuni dei segni che ci dicono che c’è una prospettiva per la Siria di rinascita umana, materiale e spirituale, che tiene viva la speranza di un futuro migliore per questo Paese, e che viene alimentata ogni giorno dalla presenza dei cristiani di varie confessioni che, fra le recenti fragili aperture, vanno ricostruendo, con tenacia, i cuori e le opere».

– I siriani che sono fuggiti, sperate che possano decidere di ritornare nella loro patria?
«Siamo realisti, non tutti torneranno. Tuttavia noi ci auguriamo che possano essere una ulteriore ricchezza per la Siria come apertura al mondo e come appello alle nazioni a non dimenticarsi di questa terra».

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