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Essere missionario dove nessuno ti aspetta

di PAOLO ANNECHINI

Don Giovanni Bendinelli, dopo quasi 50 anni di ministero come fidei donum in America Latina, è rientrato in diocesi

Parole chiave: Missione (23), Diocesi di Verona (73), Fidei donum (4)
Essere missionario dove nessuno ti aspetta

di PAOLO ANNECHINI

Don Giovanni Bendinelli, 78 anni, originario di Lugagnano, prete dal 1968, dopo quasi mezzo secolo di missione in America Latina come fidei donum è rientrato definitivamente in diocesi. Lo abbiamo incontrato.
– Don Bendinelli, 45 anni in missione… Da dove iniziamo?
«È stata un’esperienza che neanche io immaginavo. Sono partito nel 1972, dopo 4 anni di ministero nella comunità di Albaredo, per fare il missionario con i metodi di sempre. Ma il giorno dopo il mio arrivo in Argentina, nella grande Buenos Aires, già mi ero accorto che il mondo era differente. Nessuno ti aspettava, il mondo continuava lo stesso con o senza di me. È stato difficile inserirmi. L’Argentina era in subbuglio, e mi ripetevo: “ma io qui non faccio nulla”. Decisi di andare a lavorare in fabbrica, per stare vicino alla gente, agli operai. Mezza giornata in parrocchia, mezza in fabbrica. E lì ho imparato un sacco di cose. Capii come ragiona un latinoamericano, che pensieri formula, soprattutto come vive. E poi la lingua, mi misi a studiarla approfonditamente, perché conoscendo i meandri della lingua si arriva al cuore delle persone, altrimenti rimane una relazione di superficie».
– Quindi cosa accadde?
«Andai da mons. Jorge Novak, vescovo di Quilmes, un punto di riferimento per l’Argentina di quel tempo, e gli dissi che sentivo il bisogno di un periodo di stacco. Avevo la necessità di approfondire. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto studiare la storia della Chiesa, lui mi ribatté che era meglio studiare la Bibbia. “L’America Latina ha tanto bisogno di conoscere la Bibbia”, mi disse. È stata l’indicazione che mi ha orientato per il resto della mia vita missionaria. Tornai in Italia e passai tre anni a Roma a studiare Sacra Srittura».
– E poi?
«Mi presentai dal vescovo di Verona, mons. Giuseppe Carraro, che mi disse: “Sì, tornerai in America Latina, ma non in Argentina. Abbiamo bisogno in Uruguay”. In Uruguay c’erano già diversi preti fidei donum veronesi. Il mio doveva essere un impegno di tre anni, per poi tornare in Argentina. I tre anni sono stati 23, ed è stato un periodo davvero bello. Abbiamo lavorato molto bene accompagnando una Chiesa di laici attorno alla parola di Dio e seguendo le vicende umane della vita di tutti i giorni, facendo capire che un mondo nuovo, di relazioni nuove, è possibile. In Uruguay, paese laico, lontano da ogni credo religioso, anche la religione cattolica deve rimanere al suo posto e non deve mai interferire con le iniziative del governo».
– Dopo 23 anni di Uruguay?
«Nel 2003 mi sembrava opportuno cambiare. Tornare in Italia non è mai stato il mio sogno, ho ripreso i contatti con Buenos Aires, con la diocesi di Quilmes, dove lavorano tuttora altri fidei donum veronesi, che volentieri mi ha accolto, affidandomi una parrocchia di 30mila abitanti, che qui è grande, ma per Buenos Aires è piccola. Ho fatto il parroco fino a quindici giorni fa, quando sono rientrato definitivamente in Italia».
– Come si fa il parroco in Argentina?
«In una realtà conflittuale e socialmente spaccata ho applicato l’esperienza accumulata negli anni, ovvero formare nuclei di persone, adulti, spesso famiglie, sposi, che fossero loro dopo un po’ di tempo a sostenere il cammino della parrocchia. E con loro ho intrapreso un cammino di formazione biblica sulla Parola (mons. Novak era stato profetico!), che poi loro replicavano in una miriade di piccoli gruppi (8-10 persone). La dinamica non è imparare quello che il prete ti insegna, ma vedere cosa ci dice il progetto di Dio oggi, nella realtà in cui vivi».
– Cos’ha imparato da questi gruppi?
«Che Dio ha un progetto sulla storia, non siamo noi a progettare. Noi dobbiamo conoscerlo e metterlo in pratica, che sono le due linee della lettura biblica, conoscere e portarlo alla nostra vita personale, famigliare, sociale, parrocchiale. La Parola di Dio è stata il punto di riferimento, assieme alla domanda successiva: cosa ci vuole dire Dio in questo momento? Abbiamo sbagliato tante volte, quando abbiamo dato la priorità ai sentimenti o alle idee personali. L’atteggiamento di fronte alla Parola è quello di svestirsi per riconoscere dove personalmente e comunitariamente Dio ci vuole portare. È lavoro difficile in una realtà, come quella argentina, passata attraverso la dittatura, i desaparecidos. La gente semplice a volte ha soggezione a parlare, ma la frase era: “Quello che tu non dici viene a mancare a tutti noi”. Il prete non è al centro della scena e una delle prove l’ho avuta anche l’8 dicembre scorso, festa patronale di conclusione dell’attività annuale e inizio delle vacanze (in Argentina è estate, ndr). Io ero già partito, il nuovo parroco deve ancora arrivare, ma la festa si è fatta lo stesso, in grande stile. Sono piccole soddisfazioni, frutto di un lavoro di tante persone, di avvicinamento, di relazioni personali, di stare con la gente».
– Cosa vuol dire fare il missionario “dove nessuno ti aspetta”?
«Vuol dire che devi essere tu ad andare incontro alla gente. Se ti isoli, se ti rinchiudi in casa o nella chiesa, nelle celebrazioni dove spesso partecipi solo tu, sei finito. Devi andare incontro alla gente, camminando, salutando. Il saluto è molto importante, provoca una reazione in chi saluti. Chi è questo sconosciuto che mi saluta? Perché? Ai bambini al catechismo chiedevo di accompagnarmi a casa loro. Per loro era una festa, per le famiglie vedere arrivare il prete dove non c’era mai stato, era qualcosa di strano, anche di sospetto. Non si va per fare prediche, ma per stare in compagnia, per stare vicini. Tu sei uno sconosciuto, loro sono sconosciuti: non so che vita fanno, quali sono le loro fatiche… Quindi si ascolta. Così si supera la prima barriera, che è quella dell’indifferenza e del sospetto. Prendono fiducia e poco a poco si aprono. Qualcuno partecipa poi ai piccoli gruppi, ed è una liberazione grande. È gente ferita, ha grandi problemi anche economici. Se un missionario pensa di andare in Argentina con lo stile del “conquistatore”, sbaglia prospettiva e incontra fallimenti. L’esperienza mi ha insegnato che bisogna ascoltare il mondo, la realtà in cui ti trovi. In fabbrica non ho mai fatto discorsi, sono venuti a sapere che ero prete dopo 6 mesi. L’obiettivo era stare con loro. Se poi la parola di Dio è presa come orientamento, il resto si costruisce da sé».
– Vale la pena fare il missionario?
«Sì anche perché ti trovi in un mondo nuovo al quale ti devi adattare. Devi lasciare molte cose che credevi certezze e in realtà non lo sono. Ogni gesto è evangelizzazione, anche le telefonate a ciascuna delle famiglie per dire: “Ci siete stasera?”». 

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