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Verona a tavola: storia (buona) da gustare

Unisce ricerca, immagini e sapori della tradizione la pubblicazione di Andrea Brugnoli dedicata alla “veronesità” che finisce nel piatto. Un patrimonio da conoscere e valorizzare

Parole chiave: Tavola (1), Verona (222)
Verona a tavola: storia (buona) da gustare

La pearà può ben esserlo, ma soltanto perché tra Seicento e Settecento fu modificata in salsa con base dolce, di midollo o burro, da acida che era; altrove, dove tale trasformazione non avvenne, è appunto scomparsa.
Si fa presto a dire tradizione. Più complesso è andare alle origini di usanze, pure culinarie, tramandate dal passato. Eppure di rimandi e curiosità è ben condita la storia scaligera che lo studioso Andrea Brugnoli ha passato al setaccio per consegnare alle stampe la pubblicazione Verona illustrata a tavola (Gianni Bussinelli Editore). Narrazione agile, generosa di illustrazioni, dedicata alla tradizione nel campo delle produzioni agricole, della cultura alimentare, delle pratiche culinarie che riempiono di gusto il Veronese. Trentacinque i capitoli, suddivisi in quattro grandi aree (pane, companatico, frutta e dolci, vini e bevande), da assaporare una pagina dopo l’altra.
«Inizialmente la mia era una ricerca di immagini a “supporto” di una tradizionale ricerca di storia agraria e dell’alimentazione basata su fonti scritte. Poi la parte iconografica si è imposta in tutta la sua autonomia, costituendo un racconto parallelo», motiva l’autore. «Anche se nell’arte scaligera fino all’età contemporanea non compaiono nature morte o scene di mercato, l’agricoltura e la produzione di alimenti emergono in maniera significativa, talvolta integrando quanto le altre fonti indicano, talvolta dando informazioni assolutamente originali, come la predilezione per i gamberi sulle tavole medievali di Verona».
L’ingrediente dell’arte è fondamentale: dalle sue variegate espressioni affiora un contesto culturale di cui colture e alimenti erano parte integrante. Ed è nei dettagli che si deve indagare con minuzia un mondo pressoché scomparso: segreto, questo, per identificare fattori che hanno contribuito a costruire il gusto alimentare odierno e il paesaggio, non solo agrario, in cui viviamo.
Questione di consapevolezza e conoscenza, sottolinea Brugnoli: «Quando valorizziamo quelle che sono effettive specificità della produzione agroalimentare o culinaria, che potrebbero vantare una tradizione storica di lunghissima durata, raramente se ne conoscono le radici storiche». Qualche esempio? Gli asparagi, apprezzati dalle più importanti corti d’Italia nel Cinquecento, per i quali si richiamano fantomatici e recenti interventi napoleonici; oppure le tecniche di imbianchimento del radicchio, praticate a Verona ben prima di quanto oggi si racconti.
«Se riteniamo alimentazione e cucina patrimonio culturale, bisognerebbe studiarlo per valorizzarlo correttamente. Questo è un discorso che va a toccare temi più ampi, perché la cucina non è un’attività isolata dal contesto in cui viviamo: coltivare piante, allevare animali, cacciare o pescare ha sempre comportato profonde trasformazioni dell’ambiente e del paesaggio. Per cui essere consapevoli di questo patrimonio può diventare la chiave per comprendere il territorio che ci circonda, per saper leggere le trasformazioni in atto e agire di conseguenza».
Una tradizione in questo campo vive se non è cristallizzata, se è reinterpretata e adattata a nuove esigenze. Finalità della pubblicazione è dunque mostrare quanta storia costituisce il dna di molti alimenti e di pratiche che, magari inconsapevolmente, esercitiamo in cucina e a tavola. «Sono proprio tali pratiche, non tanto i singoli prodotti, a costituire una tradizione: possiamo aver sostituito il granturco al sorgo, ma sempre polenta ne abbiamo fatto. Ho cercato perciò di fornire strumenti di conoscenza per distinguere quanto il mercato possa voler imporre nel nostro immaginario come “tradizione”, di certo non nel nostro interesse».
Altra cosa è la contaminazione, segnala: «I sapori nostrani, in particolare a Verona, sono frutto di contaminazioni, ed è questa la loro ricchezza: innanzitutto tra prodotti di un territorio molto vario; poi tra culture alimentari che qui si sono incrociate, da quelle delle popolazioni germaniche nell’alto Medioevo a quelle austriache nell’Ottocento. Siamo sempre stati “contaminati”, addirittura dallo sguardo esterno, che può essere anzi il fattore che ha definito alcuni elementi identitari». In riva all’Adige, il salame all’aglio non esisterebbe se non fosse stato apprezzato e richiesto fuori Verona tra Settecento e Ottocento: il “nostro” salume era allora condito con vino e cannella.
Il libro può essere letto su diversi piani: tra immagini, didascalie, testi che l’autore ammette di aver “cucinato” per rendere la degustazione piacevole e insaporita da stuzzicanti intermezzi. Come scoprire, nel solco di una tradizione che è frutto di trasformazioni e contaminazioni, cosa sono i bagigi: «Noi li intendiamo come arachidi. Ma il termine, in realtà, viene dall’arabo habb ‘aziz e si riferirebbe ai tuberi del Cyperus esculentus, quelli che a Trapani sono detti cabasisi. A Verona, perlomeno dal XVI secolo, erano tanto abbondantemente coltivati e consumati da esser noti in tutta Europa come Trasi dei veronesi. Quando arriva la più gustosa arachide, a questa è stato trasferito il vecchio nome, ma soprattutto abbiamo continuato a consumarla “dopo cena, per diletto”, come notava appunto un botanico del Cinquecento». Signori, a tavola: Verona è servita.

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