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Lavorare per stipendi... da fame

Si parla di dignità del lavoro. Questa esige tutele e norme del legislatore, ma anche retribuzioni che non siano offensive della persona.

Parole chiave: Salrio (1), Primo Piano (11), Lavoro (62), Povertà (38)
Mano con guanto da operaio con pochi spiccioli sul palmo

Il Decreto legge contenente “disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese” entrato in vigore il 14 luglio, convertito in legge il 9 agosto scorso, continua a suscitare un acceso dibattito che vede protagoniste le forze politiche, i partiti, gli imprenditori e i sindacati. Il tema è quello del lavoro, del precariato, dello sfruttamento di tanti giovani, dei salari troppo bassi, dell’eccessivo carico fiscale che penalizza l’occupazione.

Giovani (e non) alle prese con tanto sfruttamento

Precarizzati e sottopagati: un'anomalia tutta italiana

Il Decreto legge contenente “disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese” entrato in vigore il 14 luglio, convertito in legge il 9 agosto scorso, continua a suscitare un acceso dibattito che vede protagoniste le forze politiche, i partiti, gli imprenditori e i sindacati. Il tema è quello del lavoro, del precariato, dello sfruttamento di tanti giovani, dei salari troppo bassi, dell’eccessivo carico fiscale che penalizza l’occupazione.
Ma qual è la situazione in Italia? E cosa mostra il confronto con gli altri Stati dell’Unione Europea?
Secondo il Ministero dell’Economia a fine 2017 il reddito complessivo dichiarato dagli italiani ammontava a 843 miliardi di euro, per un valore medio di 29.940 euro. I redditi da lavoro dipendente rappresentavano il 52% del totale (438 miliardi) e quelli da pensione il 30% (253 miliardi). Il reddito annuo medio dei lavoratori dipendenti risultava di 20.680 euro per un mensile dunque di 1.733 euro (comprendente tredicesima ed eventuali premi di produzione). In Veneto il reddito medio era di 22.554 euro, con in testa Vicenza (23.902) e in coda Rovigo con 19.726 euro. Sono retribuzioni alte o basse?
I dati mostrano per prima cosa che sono retribuzioni ferme nel tempo. Se si considerano gli ultimi vent’anni, il tasso di crescita dei salari mostra le seguenti percentuali: in testa Regno Unito e Stati Uniti con aumenti rispettivamente del 34,2% e del 31,3%. In posizione intermedia seguono la Francia (+25,5%) e la Germania (+15,1%). Chiudono la classifica Italia (+6,4%) e Spagna (+4,7%). In cifre assolute, il raffronto con i principali Paesi pone l’Italia al nono posto.
Secondo statistiche dell’Unione Europea il costo del lavoro orario medio era pari nella zona euro a 29,80 euro (con punte di 50,20 euro in Norvegia e di 42 in Danimarca ma di 4,40 euro in Bulgaria!). Il costo del lavoro – quello che sostiene l’azienda – è formato però da due componenti: la remunerazione percepita dal lavoratore e i contributi sociali a carico del datore di lavoro. Questi oneri risultano in Italia assai alti, pari al 27,4% rispetto a una media europea del 23,9%. Se si tiene conto delle tasse e dei contributi sociali a carico sia del lavoratore che del datore di lavoro – il cosiddetto cuneo fiscale – si arriva al 47,7% del totale del costo del lavoro contro una media europea del 35,9%. L’Italia, con oltre 10 punti percentuali sopra tale media, risulta così, in questa poco invidiabile classifica, al terzo posto tra i Paesi Ocse, preceduta soltanto da Belgio e Germania.
Abbassare il cuneo fiscale è una delle ricette decisive proposte dagli economisti e dagli stessi imprenditori per rilanciare l’occupazione e assicurare stabilità ai rapporti di lavoro. L’impresa infatti andrebbe a sostenere un costo minore e i lavoratori ad avere un salario più alto. Lo Stato e gli enti previdenziali incasserebbero minori imposte e contributi che – affermano i sostenitori di questa tesi – verrebbero compensati dall’allargamento della base occupazionale, vale a dire dai lavoratori aggiuntivi assunti.
Va tenuto presente un altro dato fondamentale: la differenza tra “salario nominale” e “salario reale”. Il primo è la somma monetaria percepita (per esempio i 1.400 euro mensili di un operaio); il secondo considera il livello generale dei prezzi e la loro dinamica (inflazione); in parole più semplici il “costo della vita”. Misura dunque l’effettiva quantità di beni e servizi acquistabili.
Facciamo un esempio. In Svizzera il salario di un operaio è circa il doppio dell’omologo italiano ma nel primo Paese il “costo della vita” è molto più alto che da noi. Se si tiene dunque conto dei salari reali, la differenza tra quelli italiani e quelli dei principali Paesi europei si riduce significativamente.
Infine gli economisti fanno osservare che il livello dei salari non è una variabile indipendente ma va strettamente correlato alla produttività del lavoro. E questa in Italia è stagnante da più di un decennio. Un innalzamento della produttività renderebbe possibile quindi un aumento delle remunerazioni.
In questo quadro generale si inserisce il vivace il dibattito in corso sul precariato, sullo sfruttamento dei giovani, sui nuovi lavori sottopagati. L’occupazione in Italia aumenta da diversi anni ma va anche detto che gran parte dei nuovi contratti sono a tempo determinato.
A fine dello scorso anno, per questa forma di rapporto, si è raggiunto il massimo storico di 2,9 milioni (di cui ben 88mila con un lavoro della durata di un mese), valori quasi triplicati rispetto a due decenni prima. Si tratta del 16,3% del totale degli occupati, cinque punti in più del dato relativo al 2004. Non si può dunque negare che il problema esista e che vadano date risposte coerenti, tenendo conto da una parte della necessaria flessibilità su cui le imprese debbono contare, e dall’altra della tutela dei diritti dei lavoratori e di una giusta retribuzione.
È evidente a tutti come Il precariato e tutte le altre forme di lavoro sottopagato o, peggio, in nero producano alla lunga uno sfilacciamento del tessuto sociale, rendano impossibile costituire una famiglia, acquistare la casa, fare figli e garantire loro una formazione. Il contrasto a questo processo disgregativo è in corso da tempo nei grandi Paesi europei, a cominciare dalla Francia. L’Italia arriva come sempre dopo, ma ogni sforzo in tale direzione va condiviso e sostenuto. È nell’interesse di tutti avere una società più giusta e rispettosa dei diritti, che vanno di pari passo con i doveri.
Renzo Cocco

«Posto fisso? Sembrava, e invece...»

Da tre anni e mezzo Giovanni (nome di fantasia) lavora per un’importante multinazionale veronese. Ha trovato l’impiego grazie al passaparola. «Ho fatto un colloquio e sono risultato idoneo alle mansioni richieste – spiega –. A quel punto mi hanno chiesto di portare la documentazione necessaria a un’agenzia di collocamento, da cui poi sono stato materialmente assunto».
All’inizio ha ottenuto contratti a tempo determinato, rinnovati di tre mesi in tre mesi. «Al quarto rinnovo ho pensato che l’azienda mi avrebbe finalmente assunto a tempo indeterminato. E così è stato, ma ad assumermi in realtà è stata l’agenzia interinale – precisa –. Al momento della firma mi hanno detto che il mio contratto sarebbe stato a tempo indeterminato... per i prossimi due anni. In pratica, dovevano per legge farmi un contratto a tempo indeterminato, ma loro in realtà avevano l’appalto con i loro clienti veronesi garantito solo per i successivi due anni». Poi si vedrà. Ma rimane un paradosso.
Ma di cosa si occupa, esattamente, Giovanni? «Io sono una sorta di tuttofare: ho le chiavi dell’azienda, con il compito di aprire e chiudere i cancelli; ma soprattutto ho delle responsabilità contabili, con l’incarico di portare contanti in banca, firmare documenti e consegnarli ad avvocati e notai. Insomma, vengo considerato come una sorta di uomo di fiducia, con responsabilità oggettive. La mia paga, però, è di 6,80 euro lordi l’ora. Ogni giorno lavoro circa sei ore. Di fatto ho un part time al 75%, con un guadagno fra gli 800 e i 900 euro al mese, ma all’ufficio personale ritengono che il concetto di flessibilità sia un dogma – aggiunge –. Possono chiederti anche l’apertura e la conseguente chiusura straordinaria dello stabile il sabato mattina. Il che vuol dire essere lì alle 8 del mattino per aprire e poi, dopo quattro o cinque ore, per chiudere. Significa, quindi, non avere il sabato libero, ma questa disponibilità viene ripagata con solo 15 euro extra in busta paga».
Ernesto Kieffer

«Adeguarsi in attesa di tempi migliori»

E chi ancora un lavoro non ce l’ha? Si arrabatta come può. Per i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro, di questi tempi, tutto pare in salita. Valentino Bendazzoli ha 26 anni e una laurea magistrale in Scienze filosofiche, conseguita a dicembre all’ateneo scaligero. «Il mio desiderio è di diventare un insegnante, perciò ho inviato diverse domande per fare supplenza durante il prossimo anno scolastico, in attesa che esca la data del concorso di abilitazione alla professione», dice.
Il pallino dell’insegnamento l’ha avuto fin da piccolo. «Intanto, per fare pratica, ho fatto il catechista ai ragazzi di seconda media nella parrocchia di Vigasio, il mio paese – spiega –. Seguire un gruppo di preadolescenti è stato un bel banco di prova, che ha confermato la mia predisposizione verso questa professione».
Nel mentre, per non rimanere con le mani in mano, quest’estate Valentino ha lavorato come comparsa in Arena. «È stata una bella esperienza trovarmi sul palco – dice –. Ho partecipato alle rappresentazioni del Nabucco e dell’Aida, grazie alle quali ho potuto mettere da parte circa 35 euro a serata: un piccolo mattoncino verso l’indipendenza».
Anche l’anno di servizio civile, svolto nella Comunità Papa Giovanni XXIII, ha portato al giovane un po’ di autonomia. «Attorno a me tanti tirano avanti con lavori saltuari,in attesa di occasioni migliori», constata.
Adriana Vallisari

Se la disponibilità non entra mai in busta paga

«Bisogna stringere i denti e tenerselo stretto un lavoro: anche se le condizioni sono dure e il prezzo da pagare per portare a casa lo stipendio va a discapito del tempo per la famiglia». Le domeniche estive, Chiara le ha trascorse al chiuso del negozio in cui è assunta, all’interno di uno dei tanti centri commerciali veronesi.
Con due figli a carico, lo stipendio – di circa 800 euro, qualcosa in più quando ci sono gli straordinari – fa presto a volatilizzarsi. «Però, se guardo ad altre colleghe e amiche posso dirmi fortunata: ho un contratto a tempo indeterminato e part-time», dice.
È il contatto diretto con la clientela che ripaga Chiara degli sforzi. «Amo il mio lavoro, tuttavia sto notando un deterioramento progressivo della qualità – chiarisce ­–. Un esempio? Per contenere i costi, il personale è stato ridotto all’osso: la mansione che prima facevamo in due ora la deve fare una sola persona».
Nel tempo il carico di lavoro è aumentato notevolmente, così come lo stress. «Noi lavoratori veniamo usati come jolly e spostati senza preavviso dove c’è più bisogno; tappiamo i buchi, senza ricevere una grande formazione preparatoria – continua –. E guai a dir di no, nessuno ovviamente si azzarda: fuori dalla porta c’è una fila di persone che sarebbe disposta a prendere il nostro posto in meno di un secondo».  
Disponibilità, flessibilità, cortesia: sono le caratteristiche più apprezzate dal datore di lavoro. «Di natura sono una persona affabile e solare, certo che con questi ritmi da criceti sulla ruota il sorriso esce un po’ più tirato», constata la donna. C’è qualcosa che potrebbe migliorare la sua situazione di lavoratrice?, le chiediamo in conclusione. Senza esitazione, risponde che se dipendesse da lei, adotterebbe subito una rivoluzione, semplice ma dai benefici positivi. «Tenere chiusi gli esercizi commerciali la domenica, per poter stare più tempo con mio marito e i miei figli». [A. Val.]

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