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«L'invasione? Non c'è»

Un report del Cestim fa luce sulla gestione dell'accoglienza a Verona

«L'invasione? Non c'è»

«Se tutti i Comuni veronesi accogliessero cinque richiedenti protezione internazionale ciascuno, la questione dell’accoglienza sarebbe risolta in modo indolore; invece, solo due, Verona e Bosco Chiesanuova, hanno attivato lo Sprar, il sistema di protezione ordinario. Come mai gli altri non lo fanno? Per ragioni politiche, per paura di perdere il consenso elettorale». 

È il quadro che emerge dal report stilato dal Cestim sull’accoglienza straordinaria dei richiedenti protezione internazionale in provincia di Verona durante il triennio 2014-2017. L’analisi, presentata in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, prende in esame i Cas, i centri di accoglienza straordinaria. Ovvero le strutture, di varie dimensioni, gestite in convenzione con la prefettura e finanziate con fondi del ministero dell’Interno. Luoghi di accoglienza straordinaria, nati per far fronte ai copiosi sbarchi di qualche anno fa. Pensati per l’accoglienza temporanea di chi è arrivato in Italia su un barcone (dalla rotta libica, nella maggioranza dei casi), ma che nei Cas è rimasto – e rimane – almeno un anno, in attesa di una risposta alla richiesta di protezione internazionale o di permesso di soggiorno per motivi umanitari.

«Il tema è di attualità, se ne discute molto e tanti parlano a vanvera: perciò abbiamo voluto fare chiarezza e lasciar parlare i dati», spiega il sociologo Maurizio Carbognin, già direttore generale del Comune di Verona, oggi volontario del Cestim e all’interno di vari Cas. «Quando l’accoglienza è diffusa, spalmata sul territorio, del problema non se ne accorge nessuno: se la gente ha modo di conoscere direttamente queste persone, vede che non mordono e non uccidono, anzi riescono persino a trovare lavoro, se messi nelle condizioni di farlo – rileva Carbognin –.  È semmai con i grandi numeri che si generano polemiche e mal di pancia; tuttavia, il clamore spesso strumentalizzato che accompagna l’apertura di nuovi Cas in genere si placa nel giro di un mese». 

Scorrendo i dati del rapporto, si scopre che l’impatto di queste strutture è irrisorio: anche nei momenti di maggiore affollamento non si è mai superato il valore di 3 accolti ogni mille abitanti. Le uniche eccezioni si trovano nelle periferie più remote della provincia, in tre strutture residenziali della Lessinia, inutilizzate e riconvertite. Il primato spetta infatti a Ferrara di Monte Baldo (il 20,61% di richiedenti su un totale di 228 residenti), seguita da San Zeno di Montagna (5,51%) ed Erbezzo (5,14%). «Tuttavia, anche nei casi di grandi concentrazioni, la convivenza con la popolazione locale non ha visto grosse criticità – dice il sociologo –. Tant’è che a Ferrara di Monte Baldo oggi diversi ragazzi africani, che per loro cultura hanno molto rispetto per gli anziani, aiutano i vecchi abitanti a portare le borse della spesa».

Stando ai dati della prefettura, nel Veronese sono 185 i Cas esistenti in 61 paesi (nel conteggio figurano anche gli appartamenti con poche persone accolte, non solo le medie e grandi strutture). Le associazioni e le cooperative che li gestiscono, invece, sono una trentina. Il numero delle presenze è stato fluttuante nel tempo: trascurabile fino al 2014 (erano 338), ha continuato a crescere fino alla fine del 2017, quando nei centri di accoglienza si contavano 2.705 persone. «Oggi sono in calo, pari a 2.343, ma è difficile prevedere come sarà l’andamento dei prossimi mesi, visti i recenti sviluppi sulle rotte: di certo però non siamo di fronte a un’invasione», rileva Carbognin.  

La fotografia della gestione mostra una situazione variegata. «Si nota una standardizzazione nei servizi di base, cioè assistenza sanitaria, cibo, mediazione linguistica e corsi di lingua italiana, garantiti a tutti; le differenze si trovano nei servizi aggiuntivi, come la formazione professionale e l’avviamento al lavoro». Proprio sul dopo si gioca la partita. «La commissione territoriale riconosce la protezione solo al 30% dei richiedenti: gli altri si spostano all’estero o trovano qualche lavoretto, ma una parte consistente diventa un fantasma o va a ingrossare l’esercito dei senza fissa dimora – conclude il sociologo –. Perciò sarebbe importante favorire una collaborazione tra enti locali, realtà imprenditoriali e corsi di formazione professionale per gestire meglio questa transizione ed evitare sofferenze e conseguenze negative per loro e, di riflesso, per la società».

  

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