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Riccardo Cucchi, una vita “dentro” la radio

Compie 60 anni la prima voce dello storico programma Tutto il calcio minuto per minuto 

Parole chiave: Riccardo Cucchi (1), Calcio (135), Personaggi (5)
Riccardo Cucchi, una vita “dentro” la radio

Fra le tante trasmissioni che sono nate e poi scomparse nella storia della radiotelevisione italiana ce n’è una che ininterrottamente da sessant’anni (esattamente dal 10 gennaio 1960) accompagna le domeniche (ma ormai anche i venerdì, i sabati, i lunedì e anche tutti gli altri giorni della settimana quando ci sono le coppe europee) degli italiani. Stiamo ovviamente parlando di Tutto il calcio minuto per minuto, il mitico programma radiofonico che racconta, dai campi di calcio di tutto lo Stivale, le partite ai tifosi sintonizzati.

E fra le voci che hanno fatto la storia della trasmissione (dal 1982 al 2017) c’è sicuramente anche quella di Riccardo Cucchi, autore in questi anni di centinaia e centinaia di radiocronache. Fra cui anche quella, indimenticabile, del 9 luglio 2006 all’Olympiastadion di Berlino che laureò per la quarta volta l’Italia Campione del Mondo.

– Cucchi, Tutto il calcio minuto per minuto è una delle trasmissioni più longeve della storia della radiotelevisione italiana. Cos’ha significato secondo lei per l’Italia?

«Ha accompagnato la mia vita. Prima da bambino, un bambino che cullava la sua fantasia e la sua passione incollato alla radiolina, viveva e conosceva il calcio e i suoi colori attraverso le voci di Ameri, Ciotti, Provenzali e sognava di fare un giorno il loro lavoro. Poi da giornalista, al fianco di quei magnifici narratori dai quali ho cercato di rubare i segreti del mestiere. 40 anni vissuti al microfono con intensità, dedizione, amore. Una vita vissuta alla radio, vissuta dentro Tutto il calcio. Come diceva Candido Cannavò, indimenticato direttore de La Gazzetta dello Sport, “Tutto il calcio è stata la colonna sonora delle domeniche degli italiani”».

– Qual è secondo lei lo stato attuale della radiocronaca sportiva italiana, anche in relazione all’avvento di Sky e della possibilità di vedere la partita in tv?

«Ottimo, secondo me. La televisione non ha ucciso la radio come qualcuno profetizzava. Certo, non ci sono più i 25 milioni di ascoltatori di un tempo, ma la radio sopravvive benissimo, aiutando chi non può o non vuole pagare il calcio in tv a vivere comunque le emozioni di una partita».

– Quali sono state le sue figure di riferimento?

«I miei maestri sono stati Ameri e Ciotti, insieme ad Alfredo Provenzali e a Mario Giobbe, una straordinaria voce ma soprattutto un intuitivo uomo di radio. Sua la frase che ha accompagnato tutta la mia vita e che ho cercato di tramandare ai miei colleghi più giovani: più breve sei, più bravo sei. Perché la radiocronaca in Tutto il calcio è sintesi, è una ricerca continua tendente a non sprecare parole».

– Come si è evoluta la radiocronaca in queste sei decadi? 

«I linguaggi si sono modernizzati, hanno seguito l’evoluzione del calcio e del costume e la radio è duttile. Gli attuali radiocronisti dimostrano che si può e si deve cambiare rimanendo, però, fedeli ad una scuola».

– Ricorda la sua prima radiocronaca? Quali sono state le emozioni che ha vissuto in quell’occasione?

«Fu un Campobasso-Fiorentina di Coppa Italia. In campo i viola Antognoni, Passarella, Bertoni, Galli. Erano vicecampioni d’Italia in quel 1982 e il Campobasso era stato appena promosso in B. Mi tremavano le gambe. Era il momento che avevo sognato da bambino, finalmente un sogno diventava realtà. Cercai di rimanere lucido e concentrato, di limitare le parole all’essenziale: frasi brevi, descrittive senza esagerazioni. Vinse sorprendentemente il Campobasso. A fine partita mi chiamò Mario Giobbe e mi disse semplicemente: “Sei stato bravo”. Fu l’inizio di tutto».

– L’emozione di gridare “Campioni del mondo” a Berlino è stata la più grande della sua carriera oppure ce ne sono state altre, magari più insospettabili?

«Gridare “Campioni del mondo” è un privilegio unico. E che tocca a pochi. Prima di me alla radio soltanto Carosio – due volte – e Ameri ebbero questa fortuna. Una serata indimenticabile il cui ricordo mi accompagna sempre, anche oggi a distanza di anni. Ma sono stato fortunato. Ho raccontato scudetti, Coppe dei Campioni e otto olimpiadi con decine di medaglie d’oro: da quella di Bordin nella maratona di Seul, a quella degli Abbagnale a Los Angeles, passando per Numa, Cerioni, Trillini e Vezzali nella scherma. Tante emozioni, tanti racconti e tanti meravigliosi ricordi».

– Arriviamo all’ultima radiocronaca, Inter-Empoli il 12 febbraio 2017. Quali emozioni ha vissuto in quell’occasione? 

«Le stesse di sempre. Perché ogni partita è sempre stata, per me, un’emozione. Sapevo che sarebbe stata l’ultima, ma cercavo di non farmi condizionare dal momento, di non cedere ad un eccesso di sentimenti. Ma ci fu un momento in cui il tumulto si fece esplosivo, il momento in cui i tifosi interisti della Nord esposero uno striscione con le parole pronunciate da me al secondo gol di Milito nella finale di Madrid, il loro saluto. Alzai il braccio senza smettere di parlare e salutai la curva. L’applauso scrosciante risuona ancora nelle mie orecchie. Indimenticabile».

– L’anno scorso ha dato alla stampe Radiogol: 35 anni di calcio minuto per minuto. Ci racconta come nasce questo libro? 

«Radiogol, non è un’autobiografia, ma un libro di racconti, di narrativa, nel quale però personaggi, storie, partite ed eventi sono veri, autentici. Una sorta di atto d’amore nei confronti della radio e del calcio, della radio e dello sport. E anche un tentativo di vedere se la parola scritta possa evocare emozioni simili a quelle provocate dalle parole pronunciate al microfono».

– Che consigli si sentirebbe di dare ad un giovane che vuole intraprendere questa professione?

«Di avere sogni e di credere nei suoi sogni. È un lavoro magnifico e difficile quello del radiocronista, un lavoro che impone sacrifici e completa dedizione, che annulla la vita privata, che impone orari impossibili, viaggi frequenti, sacrifici personali. Un radiocronista è al servizio di chi ascolta e della sua redazione. E il lavoro è l’unico e primario interesse che può coltivare. Si cresce e si matura al microfono fino all’ultimo secondo della propria carriera. Per questo serve umiltà e studio. E la conoscenza di tante parole. Un lessico ricco è la base di partenza per svolgere bene la propria parte».

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