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Don Giuseppe Liotta: «Vi racconto com'è nata la mia vocazione»

di LUCA PASSARINI

Tra illuminazioni e crisi, ecco com'è maturata la sua chiamata 

Parole chiave: Parroci (3), Vita Chiesa (10), Diocesi di Verona (73), Parrocchie (64), Preti (22)
Don Giuseppe Liotta: «Vi racconto com'è nata la mia vocazione»

di LUCA PASSARINI

Coincidenze che si ripetono, seconde occasioni, punti luce che tengono insieme un’intera esistenza. Comunque li vogliamo considerare o chiamare, ci sono alcuni momenti della vita che sono particolarmente significativi. 

Ce lo conferma anche don Giuseppe Liotta, 38 anni, vicario parrocchiale di Gesù Divino Lavoratore: «Da adolescente in pellegrinaggio a Roma per il Giubileo del 2000 avevo un sogno: dare la mano a papa Giovanni Paolo II; non ci sono riuscito e ho dovuto accontentarmi di toccare la mantellina di sfuggita. Da prete novello nel 2018, però, quella stretta di mano mancata con il Santo Padre è diventata un abbraccio. Quando sono stato davanti a papa Francesco con i miei compagni di ordinazione, ho chiesto se potessi baciare la mano, ma lui mi ha detto: sei appena stato ordinato, sono io che devo baciare le tue mani! Dopo questo momento che mi ha lasciato senza parole, ho insistito se potevo almeno abbracciarlo, anche se poi ho saputo che è una cosa totalmente fuori dal protocollo». 

Due punti allo stesso tempo così vicini e così distanti, ma tra i quali ci sono stati molti passi per don Giuseppe. «Di sicuro – ci racconta – in quello spicchio di vita c’è stata una maggior consapevolezza di fede che è culminata anche con la celebrazione del sacramento della Cresima, vissuta a 19 anni». 

Cresciuto in una famiglia cristiana, nell’età delle medie ha vissuto un periodo di crisi e di domande che lo ha portato a diradare un po’ la frequenza alla Messa domenicale e soprattutto ad abbandonare il percorso di catechesi. «Per questo – spiega –, arrivato in terza media, anno in cui si viveva la Cresima, ho preso la decisione di non farne richiesta e nemmeno di far presenza a qualche incontro solo per riceverla. Nonostante tutto, sentivo che era qualcosa di importante e non volevo prendere in giro nessuno. Guardando indietro ora, riconosco da una parte la mancanza di qualcuno che si accorgesse di me e mi aiutasse a fare un cammino di verità; ma dall’altra anche la sapienza della mia famiglia, in particolare di mia mamma che, nonostante la sorpresa iniziale, ha saputo accogliere questa decisione». 

L’opportunità di un cammino rinnovato è arrivata a metà della prima superiore per una serie di coincidenze o forse meglio per alcuni doni di cui Liotta ha saputo accorgersi e farne tesoro: «Un nuovo sacerdote la cui predicazione mi attirava molto, ma soprattutto un gruppo di coetanei che, quando mi hanno visto tornare alla celebrazione eucaristica, si sono fatti vicino, mi hanno accolto, mi hanno offerto la loro amicizia e proposto se volevo entrare nel coro o partecipare ai loro momenti di preghiera, con vera gratuità e sincero interesse». 

Altro elemento importante in quel frangente di tempo è stato il cambio di città: dalla natìa Reggio Calabria a Verona. «Proprio dentro questo mio percorso di rielaborazione – confida don Giuseppe – mi sono preso un anno con il desiderio di donare tempo ed energie per i più poveri. Sono partito con il progetto del Servizio civile e mi sono trovato a lavorare con la Caritas diocesana di Verona, facendo l’esperienza forte dell’incontro con la povertà in una città che consideravo ricca. Questo mi ha sorpreso, ma soprattutto mi ha reso consapevole che i poveri li hai sotto casa». 

Altra intuizione, che spesso accompagna questo tipo di esperienze, per Liotta è stata quella di sentirsi accolto da quelli che lui era chiamato ad accogliere, aiutato da quelli che lui aveva scelto di aiutare, ma per i quali si accorgeva di non poter fare molto. Al termine dell’anno di Servizio civile, una certezza: non si poteva limitare tutto ad un’esperienza, per quanto bella, e dalla quale tornare indietro come se nulla fosse successo: «Mi sono detto che avrei potuto e dovuto impostare la mia vita secondo il progetto che avevo visto e respirato in Caritas: continua formazione spirituale, umana e comunitaria. Sul primo aspetto mi sono affidato alle proposte della pastorale giovanile diocesana; per la crescita umana ho scelto di iscrivermi alla facoltà di Scienze dell’educazione e, per quanto riguarda l’orizzonte comunitario, insieme ad altri che avevano vissuto il Servizio civile abbiamo deciso di condividere un appartamento». 

Quest’ultima, in particolare, è stata una grande strada di crescita, segnata da gioie ma anche dalla fatica, dall’appello quotidiano all’accoglienza, dalla necessità di usare tanta misericordia verso i limiti di ciascuno. A oltre mille chilometri di distanza dalla famiglia, si ritrovava quindi lanciato in qualcosa di grande e di desiderato, con belle strade che si aprivano davanti, anche da un punto di vista lavorativo. «Un pellegrinaggio in Terra Santa con il gruppo di “Scuola della Parola” – rivela – è stato però una batosta rispetto alle sicurezze che mi ero costruito. Mi sono accorto che non stavo davvero seguendo Cristo, ma quello che volevo io. Mi stavo sistemando le cose a mio piacimento, ma occorreva iniziare ad ascoltare la Parola di Dio. Per questo ho deciso di intraprendere un percorso di ascolto e discernimento con un padre spirituale in cui ho intuito che il Signore mi stava chiamando a qualcosa di diverso. Importante in questa fase della mia vita anche il senso di diocesanità, trasmesso da molte persone e in particolare da vari preti veronesi: per me era una sorta di novità, dato che sono cresciuto in una parrocchia calabrese retta da monfortani bergamaschi». 

A ventisette anni ha quindi iniziato il percorso in Casa San Giovanni Battista e poi nel Seminario Maggiore, facendo subito due passi importanti di crescita e consapevolezza: riconoscere che non tutto ruota attorno ai propri tempi e che la fraternità è da custodire con desiderio anche in mezzo a impegni e ritmi che rischiano di far perdere spontaneità e gratuità. 

Conclude don Giuseppe: «Facendo una sorta di bilancio, devo dire che la differenza per me l’ha sempre fatta l’accoglienza. È il rinnovarsi di quello sguardo d’amore di Cristo tante volte narrato nei Vangeli. È ciò che sto cercando di vivere anche da prete, creando spazio all’altro nella fraternità sacerdotale, convivendo con le persone un caffè, una parola oppure i loro momenti di gioia e di lutto, esercitando misericordia e lasciando che l’altro ti aiuti a cambiare qualcosa di te. Questo è l’amore fraterno dei figli di Dio, di coloro che sono fratelli in Cristo; e questa è la grande testimonianza che possiamo dare oggi».

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