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Solitudine, malattia grave ma non incurabile

Sempre più anziani soli, occorre maggior “comunità”. Il geriatra Trabucchi: non ci accorgiamo più di chi ci sta vicino

Parole chiave: Reti sociali (1), Anziani (38), Solitudine (10)
Anziana signora in primo piano (Foto Dimaberkut@123RF.com)

Dirimpettai di pianerottolo che sono perfetti sconosciuti, legami familiari sempre più rarefatti, negozi di vicinato che chiudono i battenti uno dopo l’altro e una comunità spesso blindata nell’indifferenza. La solitudine è una condizione che pervade il presente, soprattutto quello degli anziani. E in futuro potrebbe andare pure peggio: ecco perché, a livello locale, i Comuni provano a correre ai ripari, potenziando le reti sociali e incentivando il volontariato. Come a Casaleone, uno dei centri più colpiti dallo spopolamento: qui per i cittadini anziani, che sono la maggioranza, si studiano e applicano soluzioni pratiche anti-solitudine.
(Foto Dimaberkut@123RF.com)

Lotta dura alla solitudine nemica numero uno degli anziani
In una società sempre più longeva ci sono troppe persone sempre più sole
Verona è a misura di anziani? Quanto è attenta nel curarsi di quelli privi di legami significativi e di reti di vicinato? Nei prossimi mesi ci penserà una ricerca scientifica a definire con esattezza il termometro della situazione.
Coinvolge anche l’Università di Verona il progetto “Redesign”, finanziato da Fondazione Cariplo e coordinato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, in collaborazione pure con l’Università degli Studi del Molise. Obiettivo: costruire conoscenza sulle situazioni di vulnerabilità negli anziani, per sviluppare e implementare nuove reti comunitarie capaci di promuovere l’invecchiamento attivo e la solidarietà tra le generazioni. «Delle persone anziani fragili si sa molto poco, perché non esistono statistiche ufficiali: bisogna andare a bussare alla loro porta per capire quali sono i fattori che condizionano in positivo o in negativo la loro condizione di vita; i risultati della ricerca ci permetteranno poi di lavorare insieme per rendere migliore il servizio delle reti sociali», spiega il prof. Federico Perali, docente di Politica economica all’ateneo scaligero, referente per il progetto.
Verona è una delle otto realtà italiane che saranno analizzate. Innanzitutto si faranno emergere le buone prassi esistenti, per esportarle su scala nazionale; a Verona, ad esempio, il Comune ha attivato uno “Sportello argento” che permette ai residenti con almeno 70 anni di sbrigare gratuitamente a domicilio pratiche anagrafiche, elettorali o relative alla tassa rifiuti.
Il secondo passaggio sarà quello di interpellare direttamente gli anziani over 75, tutti autosufficienti. In riva all’Adige saranno 40 le interviste e toccheranno anche i familiari; l’Istituto assistenza anziani e la Pia Opera Ciccarelli hanno già dato la disponibilità a segnalare persone disposte a rispondere. «Il target è rappresentato da anziani che stanno attraversando una fase di transizione derivante da un evento critico (infortunio, primi segnali di malattie neuro-degenerative, ecc.) che cambia il ruolo dell’anziano all’interno della rete familiare: da fonte di aiuto e supporto per tutta la famiglia a persona che necessita di cura e assistenza da parte dei figli e nipoti», aggiunge il prof. Michele Bertani, sociologo del Dipartimento di Scienze economiche.  
Per rilevare l’indice di ageing friendliness, ovvero di città “amica dell’invecchiamento”, saranno quindi elaborate 200 variabili a partire da fonti statistiche e dai servizi presenti sul territorio (spesa sociale pro capite, iniziative e presenza di associazioni che operano a favore della terza età…). «Per noi è fondamentale conoscere meglio questa fascia di popolazione: grazie all’apporto scientifico dell’università potremo agire sulla prevenzione delle situazioni di isolamento, anziché intervenire dopo che l’emergenza è scoppiata», sottolinea l’assessore Francesca Toffali, delegata alle Politiche demografiche.  
La solitudine resta la nemica numero uno degli anziani. Paradossalmente si acuisce proprio in un momento storico in cui il progresso tecnologico permette di comunicare in tempo reale con qualcuno all’altro capo del mondo, eppure rischia di tagliare fuori chi ci è più prossimo. «Il mondo è cambiato velocemente e riuscire a ipotizzare degli scenari da qui a 5-10 anni sarà sicuramente utile per sviluppare servizi sociali nuovi – aggiunge l’assessore ai Servizi sociali, Stefano Bertacco –. Verona è piena di eccellenze nella cura dei non autosufficienti, ora ha l’occasione di concentrarsi sugli anziani autosufficienti che rischiano di restare soli; penso ad esempio a tutta quella fetta di popolazione che dopo un’intera vita lavorativa con l’arrivo della pensione va in difficoltà». [A. Val.]

«Radice di molte malattie La medicina giusta è: più relazioni»

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Il geriatra Trabucchi: non ci accorgiamo più di chi ci sta vicino
Invecchiare non è una malattia. Ma la solitudine ha risvolti psicologici, emotivi e persino fisici capaci di compromettere la salute delle persone anziane e addirittura di anticiparne la morte. Lo evidenzia, dati alla mano, il geriatra veronese Marco Trabucchi, presidente dell’associazione italiana di Psicogeriatria.
– Professore, la solitudine è una malattia?
«Di per sé non lo è. Però può provocare l’insorgere di alcune malattie».
– Quali conseguenze ha sulla salute delle persone, specie quelle anziane, che sono più esposte?
«La solitudine è un prodromo della malattia. Porta con sé malattie vascolari e cardiocircolatorie, predispone a depressione e demenza. Inoltre sappiamo che fa morire prima: diversi studi ci dicono che comporta un aumento della mortalità del 30%. L’isolamento è una conseguenza di uno stile di vita non solo individuale, ma di una comunità intera. Ne è il frutto malvagio. È devastante negli anziani, tuttavia il problema riguarda tutte le età; pensiamo ad esempio ai giovani che si chiudono in una stanza e non ammettono nessuno: è il fenomeno dell’hikikomori, presente anche in Italia».
– La solitudine non si risolve con una pastiglietta...
«Non c’è nessun medicinale che la curi. Bisogna agire sul livello culturale: il primo passaggio è rendere consapevole la collettività e l’ambiente in cui viviamo che la solitudine è patogena. Cosa vuol dire sentirsi soli? Non è necessariamente la condizione di chi vive per conto suo e magari ha una buona rete familiare e amicale attorno. Essere soli significa aver bisogno di qualcuno e non sapere a chi rivolgersi o non trovare nessuno che risponde, dai figli al vicinato. Dietro alla tragedia delle morti in solitudine c’è sempre una comunità che non ha capito quella condizione. Per egoismo o per banale disattenzione non ci si accorge se la porta di fronte alla nostra è rimasta chiusa per giorni».  
– Siamo interpellati tutti.
«Sì. In particolare, come associazione italiana di Psicogeriatria, siamo impegnati a sensibilizzare soprattutto gli operatori sanitari: se un medico di base è bravo diventa una buona antenna, capace di captare un disagio e di avvisare i familiari. Un ruolo storicamente svolto anche dai parroci».
– La solitudine è un fenomeno sociale; a livello individuale avere una vita ricca di stimoli è la chiave per una buona vecchiaia?
«Tenersi attivi, per esempio facendo del volontariato, è sicuramente utile, eppure non basta per combattere la solitudine. C’è uno studio scientifico che ha seguito per 80 anni una popolazione: i risultati dicono chiaramente che la vita insieme, la relazione, il condividere i pasti e il non essere soli vale più di qualsiasi altro fattore biologico e clinico. La genetica ha il suo peso, ma pure la gioia di vita è importante. Conta più della misura del colesterolo».
– Uomini e donne, invecchiando, la vivono diversamente?
«Per gli uomini è molto peggio, perché in genere hanno meno relazioni sociali. Un uomo che ha perso la consorte, ad esempio, entra in un tunnel di potente sofferenza: è un fatto drammatico che può affrontare solo con una famiglia intorno e se la comunità si dimostra attiva nella socializzazione. Da non dimenticare, poi, sono le coppie anziane: almeno il 30% è sola se uno dei due coniugi ha una forma di demenza. E tutto accade nel silenzio».  
– Ci saranno però esempi positivi per vincere l’indifferenza?
«Per contrastare l’impoverimento dei rapporti sociali, a Bologna hanno ideato le social street: usando i social network come Facebook si incoraggiano i vicini di casa a conoscersi e a prendersi cura della collettività, a partire dalla via di residenza. Un altro esempio virtuoso e consolidato è quello dei “Caffè Alzheimer”, in cui malati e familiari si ritrovano; per chi svolge un compito di cura è una boccata d’ossigeno, perché permette di confrontarsi con altre persone in condizioni analoghe».
– Il 21 settembre sarà la Giornata mondiale dell’Alzheimer. Rendere visibile questa malattia, chi ne è colpito e il lavoro sommerso di tanti caregiver è un modo per spezzare la solitudine?
«Certo. Oggi in Italia sono 1,2 milioni le persone con una diagnosi di demenza e nel 60% dei casi si tratta di Alzheimer. Tuttavia non tutti escono allo scoperto, quindi il numero sale a 3 milioni, fra malati, familiari e assistenti. È chiaro che non ci si può girare dall’altra parte. C’è bisogno che le nostre città diventino più accoglienti per le persone fragili, a partire dagli anziani. I vecchi sono l’anima della città, ma bisogna che la città crei posto per i vecchi, che pensi a servizi, spazi verdi, feste e attività per loro. A livello globale, i centri città sono occupati da anziani, ricchi e turisti; i giovani stanno nelle periferie. Verona, per esempio, è stata invasa dal turismo, con il proliferare di bed and breakfast e affitti brevi; i negozi di vicinato soccombono al commercio on line; agli anziani cosa resta?».
– Che società dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro, in un’Italia che invecchia sempre più e con cambiamenti sociologici così profondi?
«Sarebbe compito della politica dare delle risposte, ma quella se ne frega. Per fortuna ogni tanto c’è papa Francesco che ci ricorda quanto dannosa sia la solitudine. È l’unico leader che ha chiaro dove stia andando il mondo...».
Adriana Vallisari

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Solitudine, malattia grave ma non incurabile
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