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«O la scuola costruisce educazione o i ragazzi la snobberanno»

di ADRIANA VALLISARI
Lo psicologo: più valori e meno voti. E internet venga usato, è già il presente

«O la scuola costruisce educazione o i ragazzi la snobberanno»

di ADRIANA VALLISARI
Fra poco ricomincia la scuola. E, col ritorno sui banchi, c’è da aspettarsi il ripresentarsi di alcuni cavalli di battaglia di noi adulti: il divieto dell’uso del cellulare in classe, l’attenzione spasmodica a voti e performance dei ragazzi, le funeste chat di classe intasate di messaggi... E se qualcosa non va? La colpa è di internet, dei videogiochi, della pandemia. Di tutto e di tutti, fuorché nostra. Benvenuti nell’era del postnarcisismo, dove vale ogni cosa. «Abitata da vissuti dissociativi, è la società dell’estremizzazione di sé stessi, che non si limita a chiedere a bambini e adolescenti di nascere e crescere secondo aspettative ideali e competitive, ma iperidealizza il sé in nome della propria fragilità adulta, fino a chiedere alle nuove generazioni di crescere secondo il mandato paradossale: “Sii te stesso a modo mio!”». Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano e docente di Psicologia nelle università milanesi Bicocca e Cattolica, su questo ci ha scritto un libro, consigliatissimo: Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta (Raffaello Cortina Editore).
– Un esempio, su mille, del nostro comportamento contraddittorio?
«Ci lamentiamo che le nuove generazioni sono irretite dalla realtà virtuale, quando abbiamo circoscritto noi, in nome delle nostre angosce, gli spazi fisici in cui un bambino o un ragazzo si può muovere spontaneamente. Pensiamoci: se sono pratiche sportive strutturate, va bene; se invece si tratta di giocare al parco sotto casa senza la supervisione di adulti, è subito tutto troppo pericoloso! E poi ci lamentiamo se la ricerca di spazi e di relazioni avviene su internet... scordandoci che il mondo ipertecnologico in cui sono immersi gliel’abbiamo costruito noi; eppure anziché accompagnare le nuove generazioni a crescervi meglio dentro, siamo i primi a compulsare sui nostri cellulari e ad alimentare la società dell’immagine, salvo poi gridare allo scandalo dell’abuso di dispositivi tecnologici fra le nuove generazioni».
– Professore, come siamo diventati così?
«Oggi cresciamo i figli in un contesto affettivo familiare certamente attento, che fornisce le risorse necessarie alla loro realizzazione personale, ma che fatica enormemente a identificarsi con loro e a riconoscere che hanno dei bisogni specifici. Abbiamo costruito un sistema che ha una grande promessa di vicinanza: sotto sotto, però, c’è una sorta di contraddizione potentissima per cui creiamo le cose per loro, ma vogliamo che le usino a modo nostro».
– Cioè siamo presenti, ma al tempo stesso lontani?
«Sì, perché anche l’adulto è abitato da fragilità e l’individualismo ha fatto sì che genitori e insegnanti siano più interessati a far bene il loro mestiere e a ricevere una conferma del proprio buon operato, anziché essere veramente attenti ai bisogni dei ragazzi. Basta guardare come trattiamo la salute del pianeta: totale disinteresse, non si pensa proprio a lasciare qualcosa alle future generazioni. Ma d’altronde se si è troppo impegnati a parlare di sé e a badare ai like, al successo e alla visibilità, non si ha tempo per il resto».
– Colgo una nota di pessimismo...
«Al contrario, sono ottimista al massimo: sono convinto che i ragazzi troveranno il modo di costruire un futuro migliore. Qualunque ragazzo o ragazza minimamente intelligente vede le contraddizioni in cui vivono molti adulti ed è alla disperata ricerca di adulti significativi: quando li trovano, costruiscono relazioni durature».
– Come con chi riesce a parlare loro apertamente di dolore e morte, concetti ormai rimossi e su cui invece gli adolescenti avrebbero bisogno di confrontarsi?
«Sì. Pensiamo alla pandemia: ci ha sbattuto in faccia la morte, eppure l’abbiamo limitata ai numeri dei decessi e spettacolarizzata, senza cogliere l’occasione per spiegare che fa parte della vita. Ma in questa società individualista e algofobica, che rimuove qualsiasi forma di sofferenza, i giovani non trovano più adulti che parlino del senso dell’esistenza, che li aiutino a farsi un’idea, a capire che il fallimento è normale e a esprimere il dolore se inciampano». – Tutti siamo stati bambini e adolescenti, ma è difficile fare dei confronti tra epoche, perché è cambiato il mondo, nel frattempo. «È imparagonabile l’infanzia di mio padre a quella che si vive oggi, o l’adolescenza del mio tempo rispetto a quella odierna. Le dinamiche sono molto differenti. Le generazioni di oggi e di domani cresceranno nella società sempre connessa di internet, dove avanza l’intelligenza artificiale e dove, per la prima volta nella storia dell’umanità, con la procreazione assistita si potranno avere dei figli senza che l’atto sessuale sia indispensabile. La domanda è: siamo in grado noi adulti di aiutarli a crescere con i giusti modelli relazionali, sia in famiglia che a scuola? Facendo sentire che siamo identificati con loro e che c’è un posto in questa società per il loro futuro?».
– Questo implica una riscossa degli adulti fragili: come possiamo migliorarci?
«Ponendo le domande giuste, comprendendo la persona che abbiamo davanti a noi, sforzandoci di sostenerla e di educarla. Ogni volta che stiamo facendo qualcosa, chiediamoci se lo stiamo facendo davvero per i nostri figli e studenti o per noi, per placare le nostre ansie e contraddizioni».
– Ha citato la scuola: come potrebbe migliorare?
«Parlare di scuola in generale è difficile, e ci lavoro da trent’anni. È un mondo enorme, composto da 900mila docenti e 41mila plessi, che fatica a cambiare e ad adattarsi, non avendo strumenti e talvolta nemmeno il sostegno dall’alto. Però ci sono anche molti dirigenti e docenti consapevoli che c’è un cambiamento da mettere in atto».
– Ci fa un esempio concreto?
«In questo momento va in pensione un preside molto noto a Milano, che ha dichiarato: “Se tornassi indietro, avrei introdotto prima internet a scuola”. Oggi le secondarie di secondo grado, frequentate da chi ha dai 14 anni in su, sono l’unico posto al mondo dove non c’è collegamento a internet, quando invece fuori c’è ovunque, dagli hotel ai centri commerciali (e ce l’abbiamo messo noi adulti, ricordiamocelo). La scuola non si fa dicendo che internet lì non ci entra o vietandolo alle prove di maturità, quando poi il mondo lavorativo richiede di saperlo maneggiare».
– Il rischio è che sia scollegata dalla realtà?
«La scuola ha perso valenza come luogo di apprendimento esclusivo. Se non la facciamo diventare il luogo in cui si costruisce una controcultura educativa, quello che otterremo in futuro sarà un sempre maggior disinvestimento da parte dei ragazzi, con un aumento del ritiro sociale e della dispersione scolastica, oltre a frotte di genitori che faranno ricorso al Tar».
– Lei è favorevole alla scuola senza voti, ci spiega perché?
«La valutazione è una cosa seria, che non può essere ridotta ai numeri. Tuttavia è molto più comodo e facile comprimerla in un 3, in 4 o in un 5 al termine di un’interrogazione, senza dare allo studente la possibilità di capire dove ha sbagliato e su cosa dovrebbe migliorare. Conosco decine di insegnanti italiani che da anni non danno più i voti, perché hanno capito che non è vero che un bel 4 fortifica: le valutazioni davvero utili sono quelle articolate, che spiegano allo studente quali sono i suoi punti di forza e quali quelli di debolezza, permettendogli di comprendere come e quando recuperare, motivandolo così a impegnarsi».
– Ancora una volta significa che gli adulti devono investire nella relazione...
«Sì. Voti, note, sospensioni e bocciature a ben guardare non solo si sono dimostrati scarsamente efficaci, ma stanno anche favorendo una dispersione scolastica senza precedenti negli ultimi anni. Agli occhi di molti adolescenti la scuola ha perso di significato: se ne allontanano, decidono che stare a casa forse è meglio che andare in classe e sentirsi mortificati, restano senza titolo di studio ed è un problema, oltre che un peccato. La scuola del futuro dovrà raggiungere sempre più quelli che a scuola non ci vorranno andare, stufi di sentirsi ripetere che internet è sbagliato, quando intorno a sé vedono che ciò che conta di più è postare video in continuazione sui social e che chi sa usare la tecnologia governa il mondo e diventa famoso». 

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