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Le pensioni in provincia di Verona: fortemente penalizzate le donne

di REDAZIONE

Cgil: importi medi più bassi, lo Stato sostenga il loro impegno. L’importo mensile medio di una pensione di vecchiaia a Verona è di 1.227,72 euro 

Parole chiave: Pensione (2), Anziani (38), Verona (223)
Le pensioni in provincia di Verona: fortemente penalizzate le donne

di REDAZIONE

Il recente aggiornamento operato dall’Inps sulle statistiche delle pensioni appartenenti ai fondi di gestione dei lavoratori privati conferma anche per la nostra provincia di Verona l’insostenibile divario tra i sessi scavato nel corso degli anni dalla carenza di politiche pubbliche per l’infanzia, la disabilità e gli anziani.
Mentre gli uomini che hanno potuto beneficiare di continuità lavorativa e di carriera ora possono godere di una pensione non certo alta, ma mediamente dignitosa, per le donne, che hanno dovuto farsi carico del lavoro di cura e che sono state coinvolte nelle grandi crisi industriali degli anni ’70 e ’80 nel tessile e nel calzaturiero, la situazione è assai critica.
I dati evidenziano infatti un numero di pensioni maturate nettamente inferiore e importi quasi dimezzati rispetto agli uomini. Nella provincia di Verona al 1° gennaio 2021 vengono pagate ogni mese 260.871 pensioni di importo medio di 924,81 euro. Il numero comprende 223.336 prestazioni previdenziali di importo medio mensile di 1.075,68 euro; e 37.535 prestazioni assistenziali di importo medio mensile di 467,95 euro.
L’assistenza a Verona pesa per il 14,39% del totale delle pensioni, una percentuale sensibilmente inferiore alla media nazionale che è del 22,38%. Vale ricordare che, mentre le prestazioni previdenziali vengono erogate alla fine di un periodo di contribuzione (pensione di vecchiaia) oppure a seguito del venir meno della capacità lavorativa (pensione di invalidità) o dell’assicurato stesso (superstiti), le prestazioni assistenziali vengono erogate a fronte di una situazione di disagio economico (es. pensione sociale) o più spesso di una invalidità civile (non vedenti, non udenti, invalidi totali o parziali).

In linea con il dato nazionale, il 45% delle pensioni veronesi (116.167) vengono percepite da uomini e il restante 55% (144.704 pensioni) da donne. Il vantaggio a favore delle donne è tuttavia solo apparente: quasi una pensione femminile su tre, precisamente il 32,13%, pari a 46.495 unità, è infatti di categoria superstite (di reversibilità o indiretta) quindi mutuata dal coniuge deceduto. L’incidenza delle “superstiti”, che “fruttano” in media circa 680 euro al mese per le donne e 480 per gli uomini, tra i maschi è assai più ridotta: è di questo tipo solo il 5,53% delle pensioni maschili.
Al contrario, la diffusione delle pensioni di vecchiaia tra le donne è molto meno frequente che tra gli uomini: se il 77,63% delle pensioni maschili veronesi è una pensione di vecchiaia, tra le donne questa percentuale si abbassa al 49,99% (comunque più alta delle media nazionale che si ferma al 40,23%). L’importo mensile medio di una pensione di vecchiaia a Verona è di 1.227,72 euro (lievemente inferiore alla media nazionale, che è di 1.246,92 euro); ma, come i famosi polli di Trilussa, anche questa media nasconde grosse disparità: se gli uomini percepiscono in media 1.569,95 euro, tra le donne l’importo medio di una pensione di vecchiaia del settore privato è di appena 801,06 euro (quasi la metà!), con minimi tra le pensionate dei fondi dei lavoratori autonomi che presentano medie mensili di appena 709,42 euro!
Esiste dunque un rischio povertà tra le pensionate? L’Inps, pur ammettendo che, a livello nazionale, ben il 59,6% delle pensioni vigenti (pari a 10.608.976 unità) presenta un importo mensile inferiore a 750 euro, e che questa percentuale sale addirittura al 72,6% tra le donne, avverte che il dato non è immediatamente indicativo di povertà, dal momento che molti pensionati sono titolari di più prestazioni pensionistiche o comunque di altri redditi.
L’istituto calcola che le pensioni legate a requisiti reddituali bassi, quali integrazione al minimo, maggiorazioni sociali, pensioni e assegni sociali e pensioni di invalidità civile, siano in Italia 4 milioni: dunque il 22,5% del totale delle pensioni o, se si preferisce, il 43% dei trattamenti inferiori ai 750 euro mensili. Un Paese che voglia guardare al futuro, tuttavia, dovrebbe fare un ragionamento diverso: a rischio povertà non sono soltanto le donne a causa dei buchi contributivi accumulati a seguito del lavoro di cura, ma anche i giovani, costretti ad interruzioni della carriera lavorativa a causa della precarietà, e tutte le categorie fragili dei non autosufficienti che ricevono sostegni a dir poco inadeguati rispetto ai loro bisogni.
La Cgil chiede con forza l’urgenza e l’indifferibilità di un grande intervento riformatore che riconosca il lavoro di cura di genere, in quanto le donne sono state e sono le più penalizzate, molte volte costrette a interrompere il proprio rapporto di lavoro per accudire i figli e assistere i familiari fragili, e obbligate ad accettare lavori part-time o precari per rientrare nel mondo del lavoro. L’inserimento di una legge per la non autosufficienza tra gli obiettivi del Recovery fund a protezione degli oltre 3 milioni di italiani non autosufficienti fa ben sperare, ma la strada da fare in direzione di una maggiore equità sociale è ancora lunga.

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