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Demenza senile malattia del secolo che si cura con... tanta attenzione

di MARTA BICEGO
Trabucchi: non deve cancellare la vita di un malato e dei suoi familiari 

Demenza senile malattia del secolo che si cura con... tanta attenzione

di MARTA BICEGO
La demenza non cancella la vita, di un malato e dei suoi familiari. Però è vero che la condiziona parecchio, specialmente se il malato e i familiari sono abbandonati a sé stessi, a vivere da soli le quotidiane difficoltà. Ma non intende cedere al pessimismo il prof. Marco Trabucchi. In attesa che la ricerca trovi una cura (che al momento non esiste) per la malattia del nostro tempo, prescrive a tutti – da chi cura a chi accudisce – il farmaco dell’attenzione. Tra le mura di casa, nelle corsie degli ospedali, nelle stanze delle case di riposo. Sono luoghi che il professore conosce bene, come ne descrive una minuscola parte di un lungo curriculum: già professore ordinario di Neuropsicofarmacologia nell’Università di Roma Tor Vergata, specialista in psichiatria, direttore scientifico del Gruppo di ricerca geriatrica di Brescia, presidente dell’Associazione italiana di Psicogeriatria. Diversi fronti, dai quali osserva il mondo delle demenze, delle case di riposo, degli ospedali. Offrendo indicazioni che dispensa, anche, attraverso le pagine della sua ultima pubblicazione Aiutami a ricordare. La demenza non cancella la vita. Come meglio comprendere la malattia e assistere chi soffre (San Paolo edizioni). Titolo e sottotitolo racchiudono tante questioni: il tema del ricordo, che non deve affievolirsi sotto il peso della demenza; di una patologia che deve essere accompagnata nella quotidianità; dell’affiancamento di chi soffre e chi se ne prende cura (i caregiver); delle opportunità da sfruttare, ad esempio attraverso le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).
– Prof. Trabucchi, qual è il messaggio che vuole dare?
«Il messaggio del grande rispetto per la sofferenza della famiglia. E del dovere che tutti noi abbiamo, sia medici sia operatori sanitari che comunità, di essere vicino ai familiari nel momento della difficoltà, enorme, con la quale si esprime il caregiving. Assistere una persona affetta da demenza con disturbi comportamentali, che cerca di scappare, che può essere aggressiva, che non riconosce, che non mangia né dorme: è una vita faticosissima».
– Un dato di fatto. Ma come andare oltre?
«Riconoscere questo è già un punto di partenza molto importante. Dobbiamo dare supporto alle famiglie, anche organizzando i servizi adeguati. Con i soldi del Pnrr, e sono tanti quelli destinati all’assistenza domiciliare, bisognerà fare formazione a chi si occupa di assistenza. Trattare un anziano con disabilità plurime, ma funzioni cognitive integre, e un anziano che ha la demenza, è completamente diverso. Su questo dobbiamo costruire un progetto. Attorno a malati e famiglie, dobbiamo costruire una cappa protettiva che è data dall’attenzione, dall’accompagnamento, dal desiderio di mettere a loro disposizione il massimo delle potenzialità di questa società».
– Viviamo in una società che invecchia sempre più, ed è un dato da non trascurare. In cui delle demenze forse si parla ancora troppo poco. Perché? È più facile guardare altrove o manca la capacità di capire l’entità del problema?
«Non c'è dubbio che i numeri aumentano e sono destinati ad aumentare in maniera molto elevata nei prossimi anni. Ci sarà sempre più bisogno di servizi e attenzione sociale. Dovremo combattere lo stigma, il nascondimento, le paure delle famiglie. La demenza è però una malattia come tutte le altre: è gravissima, interferisce con la vita, ma non è da nascondere. Il passaggio fondamentale è dunque fare in modo che la famiglia non si senta in difficoltà nel presentare la sua condizione: cosa che purtroppo ancora avviene».
– A monte c’è la diagnosi della malattia, che diventa fondamentale.
«La diagnosi è un diritto di ogni cittadino, indipendentemente che ci sia o meno un farmaco che possa guarire la patologia. Da essa dipende il dovere, da parte dell’organizzazione sanitaria, del non abbandono. Deve essere sempre accompagnata dall’impegno della struttura sanitaria, nelle sue varie espressioni: medici, infermieri, psicologi, operatori socio-sanitari».
– Dal fronte della ricerca ci sono dei segnali di speranza?
«Sì, sono ottimista, perché quando in un’area sono coinvolti migliaia di laboratori e reparti di cura in tutto il mondo, a un certo momento la risposta viene fuori. Occorrerà ancora del tempo e, anche venisse fuori la risposta definitiva, sarà solo adeguata alle fasi iniziali della malattia. Nel frattempo, resta fondamentale l’osservazione clinica. Il medico capace deve dedicare tempo alla raccolta della storia del paziente, all'esame obiettivo, ad ascoltare quello che dice la famiglia e il malato, osservando come si comporta, se sorride...».
– Veniamo da anni difficili, nei quali la pandemia ha lasciato dei segni tuttora visibili. Anche nel mondo degli anziani? «La pandemia ha lasciato tanta paura, sofferenza, senso di solitudine. Segni che restano ancora. Il post Covid ha lasciato anche sofferenze che ancora non riusciamo a diagnosticare».
– Nelle case di riposo, quale la situazione dopo lo tsunami che le ha travolte?
«Quello delle case di riposo è un mondo che è stato drammaticamente ferito, non solo dalla pandemia, ma dalle offese e dall’atteggiamento che hanno avuto alcune persone nel definire le residenze sanitarie assistite dei piccoli manicomi, dei luoghi dove le persone non venivano trattate bene. Invece è tutt’altro che così. In molte situazioni ho visto l’eroismo da parte degli operatori».
– Di eroismo, della dedizione da parte degli operatori si parla forse troppo poco. Sfuma quando emergono casi di maltrattamenti di anziani, se si pensa ad esempio a quanto è accaduto qualche giorno fa in una struttura a San Donà di Piave. Davanti agli abusi c’è indignazione e si tende a generalizzare.
«Purtroppo sappiamo bene che, in questi posti, ci sono anche delle mele marce, le quali però vanno sradicate con violenza. Sono casi di vera delinquenza, che vanno puniti senza pietà. Il seme gettato da questi mascalzoni rovina il lavoro di migliaia di persone che operano nelle nostre residenze sanitarie assistite e nei nostri centri servizi, con una dedizione formidabile».
– Si ritorna al concetto di cura, di attenzione alla persona fragile, specie se portatrice di una sofferenza legata alla malattia. Cosa risponde a chi manifesta la fatica nell’andare avanti?
«Dove possibile, intervengo da medico, per cercare di ristrutturare le difficoltà. Ci sono famiglie nelle quali, alle volte, basta un intervento di accompagnamento. Altra cosa è invece dare senso al lavoro di questi familiari, talvolta disperati. Cerco di ricordare che il loro caro vive della loro presenza, che i segnali di affetto che mostra sono da considerare un grandissimo dono e il frutto di una attenzione quotidiana. Tra tanti contributi scientifici della rivista American Geriatric Society, mi ha colpito la frase di un marito che assiste la moglie e dice di trovare il senso dell’andare avanti nei “ti voglio bene” che pronuncia in mezzo al buio della sua mente. Esorto i familiari a ricercare i segni di questi legami di affetto, che si fondano su una storia, che sono in grado di superare i silenzi. Li invito a cercare di costruire, insieme, un minimo di futuro possibile. Suggerisco di continuare a non lesinare una carezza, uno sguardo sereno, una passeggiata all’aria aperta. Forse il caro del quale si prendono cura non sembrerà apprezzare la bellezza di una primavera. In realtà, la apprezza». 

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