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«La sanità? Un leopardo che sta cambiando pelle senza una direzione»

di LUCA PASSARINI
L’ex ministro Balduzzi: le risorse ci sono, manca un governo

«La sanità? Un leopardo che sta cambiando pelle senza una direzione»

di LUCA PASSARINI
Ministro tecnico di quello che è considerato il governo più tecnico – e più divisivo riguardo ai giudizi – della storia repubblicana, quello guidato da Mario Monti. Se sui giornali e nei dibattiti pubblici si è parlato più delle tre colleghe – le uniche donne – ovvero Elsa Fornero (Lavoro e Welfare), Anna Maria Cancellieri (Interno) e Paola Severino (Giustizia), un ruolo fondamentale lo ebbe Renato Balduzzi, ministro della Sanità. Classe 1955, giurista esperto di Diritto costituzionale della salute e di diritto sanitario, era all’epoca presidente dell’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) e aveva esperienza di consigliere giuridico dei ministri della Difesa, della Sanità e delle Politiche per la famiglia. Grande promotore dei farmaci cosiddetti generici e di una razionalizzazione degli enti sanitari, lo abbiamo intervistato a margine di un convegno organizzato nei giorni scorsi ad Affi dalla Fondazione “Elena da Persico”.
Professore, come sta la sanità in Italia?
«Per rispondere con correttezza a questa domanda, bisogna distinguere tra racconto e realtà, dato pure che sui giornali e nei media vanno solo alcuni degli aspetti di una questione complessa come questa. Continuamente si sentono lamentele sulla sanità e poi leggiamo i rapporti degli studiosi e scopriamo che quella italiana è tra le prime dieci nel mondo, soprattutto grazie a due fattori: da una parte una capacità di intervento gratuito e in tempi rapidi nelle situazioni urgenti e acute, e dall’altra una qualità delle cure che è in crescita, anche dopo la pandemia. Diverso è se guardiamo a come è in grado di rispondere alle migliaia di prestazioni previste, visto che tanti hanno spesso a che fare con liste di attesa molto lunghe».
Che spesso costringono a scegliere di ricorrere alla prestazione privata a pagamento...
«Diciamo che la situazione va a creare una zona grigia, che genera lo scandalo per cui se io chiamo una clinica e digito un numero, mi dicono che per una visita devo aspettare almeno sei mesi, mentre se faccio una seconda telefonata allo stesso ente cambiando un solo numero, mi dicono che il giorno dopo posso già andare a pagamento».
Quindi ha ragione chi dice che ormai in Italia non c’è più un sistema di sanità pubblica?
«Detta così, suona come una semplificazione. Il problema non è il privato in sé, che può garantire qualcosa che il pubblico non si può permettere; ma il fatto che chi amministra la cosa pubblica deve decidere se e come governare i portatori di interesse, a partire dalle professioni e dai produttori di beni e servizi, che devono essere governati dalla politica e non l’inverso. Ci sono già le regole che stabiliscono il rapporto tra strutture pubbliche e private, tra attività istituzionale e in libera professione, ma chi è che ne controlla la corretta esecuzione? Lo stesso si può dire della gestione dei cosiddetti “gettonisti” (medici assunti “a gettone” da singoli reparti o servizi, ndr) che, seppur necessari soprattutto in alcuni periodi, poi generano confusione e tensione se nessuno applica e fa applicare le regole, che ci sono. Altro esempio: chi si sta occupando del fatto che i 45mila medici di famiglia attualmente non sono in rete con il resto del sistema sanitario e questo blocca tutta quella “continuità assistenziale” che garantirebbe un altro modo di vivere la necessità di cura, sia per il malato che per la famiglia?».
Questa “mancanza di governo”, come la chiama lei, dove ci sta portando?
«Non solo non permette un funzionamento buono della sanità – cosa che si vede oggi a macchia di leopardo sul territorio –, ma genera un vuoto, più o meno voluto. Se stiamo attenti, assistiamo a una tendenza a modificare l’assetto del nostro sistema sanitario senza discuterne. Il pieno controllo che vogliono avere alcune Regioni in questa materia (la sanità è materia di competenza regionale), rischia seriamente di portare alla creazione di due distinte sanità: per cui ci saranno strutture, operatori, cittadini di serie A e altri di serie B. Se posso pagare, avrò un tipo di trattamento, mentre agli altri non rimangono che le briciole. In giro per il mondo da varie parti si è andati verso questa soluzione, che poi alla fine, tra l’altro, costa di più e rende di meno. Da noi il problema si aggrava, se si pensa che si va verso un cambio di sistema, senza parlarne apertamente».
Un futuro alternativo quale può essere?
«Il Pnnr anche su questo aspetto apre importanti possibilità, soprattutto se si prende decisi la strada della sanità territoriale: per cui è il servizio che si fa vicino a chi ha bisogno. Proprio sul territorio, poi, si deve intervenire come singoli cittadini che, come delle sentinelle, devono verificare la qualità e invocare nel caso qualche cambiamento, magari attraverso una rotazione del personale, visto che spesso la questione parte dal fattore umano. Il massimo di questa verifica la si vive nelle urne: le Regioni hanno il controllo della sanità e gli amministratori vanno verificati, scelti e sostituiti in base a questo, con l’attenzione di non fermarsi alle parole che dicono, ma di andare a vedere i fatti concreti. Se ci pensiamo, il sistema è pensato in modo corretto: tu politico scegli a chi e come far gestire la sanità nella tua Regione e poi ne rispondi a me cittadino, alle successive elezioni. In fondo, dobbiamo dirci che in Italia ci sono i migliori a fare le leggi e i piani sulla sanità, ma ciò che manca è chi controlla e protegge i valori che spesso riempiono solo le bocche».
Ci vuole un cambio di mentalità e di approccio, quindi.
«Sì, nelle diverse prospettive e direzioni. Per esempio, dobbiamo anche superare la convinzione che tutto deve essere garantito e nessuno deve pagare. Questo è un problema non solo sanitario, perché parte dal presupposto che io devo avere tutto e i costi si devono scaricare sull’altro, che è il mio nemico e competitore. È impossibile affrontare questo tema, senza tirare in ballo che siamo il Paese con più evasione fiscale in tutta l’Unione europea, per cui ogni anno mancano circa un centinaio di miliardi di euro, forse di più. Se si riuscisse a recuperarne almeno la metà, questo varrebbe più di qualunque manovra finanziaria».
Riguardo la carenza di organico, cosa ci può dire?
«Pure qui non dobbiamo fermarci agli slogan e alla prima impressione. In realtà nel nostro Paese abbiamo più medici della media europea, dunque c’è soprattutto un problema di organizzazione e di distribuzione, tranne per alcune specialità, a partire dalla Medicina di emergenza, dove le carenze sono reali. Peggiore è la situazione degli infermieri, ma dobbiamo chiederci il motivo e dirci chiaramente che tutto questo è frutto anche di una cultura diffusa che non ha mai valorizzato e difeso questa specifica professione, spesso mostrata come una sorta di ripiego».

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