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La mensa vincenziana dove gli ultimi trovano posto

di FRANCESCA SAGLIMBENI

In via Prato Santo una "casa della carità" sempre aperta per offrire un pasto caldo

Parole chiave: San Vincenzo (2), Mensa (3), Povertà (38), Verona (222)
La mensa vincenziana dove gli ultimi trovano posto

di FRANCESCA SAGLIMBENI

Appena ci consente di buttare l’occhio nella “sua” cucina, Umberto non ha ancora finito di sparecchiare di là, nella sala delle colazioni (ci penseranno i volontari di turno quella mattina), che già lo vediamo intento a girare la passata di pomodoro. «Questa sera, maccheroni al sugo per tutti». Perché alla mensa dei Gruppi di volontariato vincenziano, in via Prato Santo a Verona, si accede appunto per il primo pasto della giornata e poi per la cena, servita attorno alle 17, in modo che i senza fissa dimora possano recarsi nei dormitori all’orario (da caserma) stabilito. E con tutte le faccende da sbrigare fin dalla prima ora, e le bocche da sfamare – circa 80 nella stagione fredda – «non è che possiamo cucinare menù diversi, in base alle etnie, proprio tutti i giorni», spiega l’addetto alla cucina, che di norma cerca però di soddisfare tutti i palati e le necessità. Così, non è raro vedere giungere sulle tavole una portata di tortellini con ripieno di ricotta e spinaci per gli ospiti musulmani e una con la variante al crudo per gli altri; oppure una lasagna al forno con ragù di carne rigorosamente di manzo, e un minestrone di verdure condito con abbondanti quantità di formaggio. Una sorte, l’indigenza, che ormai accomuna stranieri e nostri connazionali quasi in egual misura. Solo che, spesso, non ci facciamo caso. O fa comodo così.
«Prima del Covid, passava a fare colazione anche un cinquantenne italiano, separato, costretto a dormire in auto perché lo stipendio gli bastava appena per pagare il mutuo e le spese per il mantenimento del figlio. Ora è un po’ che non lo vedo». Altri uomini, padri di famiglia o meno, che vivacchiano con lavoretti in nero e/o saltuari, «passano a prendersi il panino imbottito, avanzato dal giorno prima, per portarselo al lavoro», racconta Umberto, dipendente della struttura da circa dieci anni, con gli occhi traboccanti di umanità. Gli stessi con cui ogni giorno, da sopra la mascherina, sorride a ciascuno indistintamente. Anche quelle rare volte che occorre fare un po’ la voce grossa perché qualcuno, prima di entrare, ha alzato il gomito. Allora viene accompagnato alla porta e lasciato in attesa fuori, «finché non impara le regole della convivenza». Non che interessi tessere le lodi di qualcuno piuttosto che di un altro. Qui nessuno è protagonista. Sono tutti parte dello stesso racconto. Compresa la comunità che abbraccia questo lembo del centro città. Ma è proprio per far conoscere questa trama di esistenze anche al di fuori delle sue quattro mura, che chiediamo a Umberto di farsi narratore a bordo campo per un giorno.
Tante le tinte emergenti, ora più delicate, come quella di chi, «una volta finito di mangiare pulisce il proprio posto, lasciando tutto in ordine (gesti che valgono più di tanti grazie!)», ora più cupe, come quella di Imad (nome di fantasia), pieno di diffidenza quando ci vede puntare la fotocamera nella sua direzione. «Niente foto, qui!». Lo rassicuriamo. Nessuna etichetta gli sarà appiccicata addosso, per il solo fatto di avere avuto in sorte una vita più difficile di altri. E come unica fortuna, forse, proprio quella di incontrare persone pronte ad accoglierlo senza giudizi né pre-giudizi: dall’addetta al servizio docce, ai volontari impegnati, qualche stanza più in là, nel centro di ascolto e, quando serve, nella stessa distribuzione dei pasti. Attività, quest’ultima, che con le nuove regole sul Green pass per i non vaccinati «abbiamo dovuto trasferire all’esterno. Si tratta solo di una quindicina di persone. Ma stringe il cuore non poterle far sedere, insieme a tutti gli altri, al caldo. Molti arrivano qui che sono dei “ghiaccioli”, perché i dormitori, per chi li frequenta, li sfrattano già alle sette di mattina», lamenta Umberto. L’unica cosa che si può fare, è far trovare loro un cestino d’asporto ricco di vivande calde (pane, bevande) e qualche coperta da mettersi addosso. Chi riesce ad accomodarsi dentro, invece, può fare anche doccia e barba, per poi stringere tra le mani una tazza di latte, di tè o di cioccolata fumante, accompagnata da biscotti, pane e marmellata o ghiotte creme spalmabili. Il principale fornitore è il Banco alimentare. Qualche mattina arrivano anche croissant appena sfornati, donati dai cittadini, o prodotti da forno degli ipermercati aderenti al Last Minute Market delle Acli. I generi alimentari di prima necessità di cui la mensa è maggiormente sprovvista restano carne e pesce: chi vuole intendere, intenda! Ma a trovare nutrimento non è solo il corpo. I volontari del Gvv di Verona sono infatti legati a una promessa (“vedere nel povero il volto di Cristo”), che una loro associata – desiderosa di rimanere nell’anonimato – ossequia già da più di trent’anni. La quale si concretizza pure nell’ascolto, nel supporto all’inserimento lavorativo e in un segretariato sociale volto a fornire tutte le informazioni utili a individuare i servizi di aiuto presenti sul territorio.
Ad affiancarla troviamo la giovane Drusilla, volontaria del servizio civile e campionessa italiana di distensione su panca, che a proposito di pesi dice: «Se posso contribuire ad alleggerire quello degli altri, ben venga». E Malvina, che ogni mattina scende apposta da Negrar, proprio per dare una mano nell’attività di ascolto. «A volte è dura, ma ne vale la pena», confida. E un valido aiuto arriva, a periodi, anche dagli addetti ai lavori di pubblica utilità, «impegnati soprattutto nell’igienizzazione dei locali». È solo che “le mani” non bastano più rispetto al bisogno cresciuto negli ultimi anni. «È così da un po’. Ma con il Covid la situazione è peggiorata. Molti volontari, specie quelli più avanti con l’età e quindi più fragili, hanno interrotto la collaborazione. Addirittura, rispetto agli anni ’60, quando contavamo mediamente 60 persone, siamo rimasti in 23», rivela, rammaricata, la storica vincenziana. E pure le donazioni si sono adeguate ai tempi. «Prima qualche anziano ci faceva trovare una busta nella cassetta delle poste. Adesso…». Suonano al campanello. Tara è venuta a cercare dei vestitini per la sua piccola. Ma nella fascia tra i 5 e i 7 anni si trova poco e niente. E anche la biancheria intima scarseggia. Un altro appello da girare ai lettori. 

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