Il Fatto di Bruno Fasani
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Nei panni di un povero il mistero del Natale che si rinnova sempre

Mancano pochi giorni al Natale. Sono a Roma, alla stazione Tiburtina. Fuori, il cielo ha le ossa ferite dall’umidità, mentre il buio chiude la vista all’oltre, come se lì finisse il mondo. Nessuna stella, tantomeno cometa...

Parole chiave: Il Fatto (418), Bruno Fasani (326)
Nei panni di un povero il mistero del Natale che si rinnova sempre

Mancano pochi giorni al Natale. Sono a Roma, alla stazione Tiburtina. Fuori, il cielo ha le ossa ferite dall’umidità, mentre il buio chiude la vista all’oltre, come se lì finisse il mondo. Nessuna stella, tantomeno cometa. La scena è occupata dal brulichio di gente assorta e indifferente. Si ha fretta di tornare a casa, dove c’è un piatto pronto, il tepore di letti caldi. A fianco dei binari si trascina lenta la figura di un uomo sconfitto dalla vita.
Ciao Hans, lo saluta un addetto delle ferrovie.  Hans risponde alzando un braccio. Lo osservo. Avrà sì e no 40, 45 anni. I capelli lunghi e crespi, ne coprono in gran parte la fronte, fungendo, per fortuna sua, anche da copricapo. Ma sono capelli che sanno di incuria, come tutto il suo corpo e i vestiti che lo riparano dal gelo. Cammina leggermente chino, ma non è la cifosi a piegarne lo scheletro. Cammina con la testa inclinata in avanti, come per non farsi notare o a chiedere perdono a qualcuno. Mi interrogo su cosa si nasconda tra le pieghe di quella tristezza.
Si avvicina e con discrezione cerco di allungargli cinque euro che ho trovato nel portafoglio. Mi guarda e, finalmente, vedo i suoi occhi. Sono grigi, ma si capisce che, quando stava bene, erano più azzurri, rispetto al colore della pioggia che indossa ora. Accenna un sorriso e poi fa segno di no con la testa.  
Sono un attimo imbarazzato e non so come uscirne. Gli propongo di andare al bar a mangiare uno spuntino e bere qualcosa di caldo. Danke, grazie, mi risponde, nella sua lingua madre, anche se mi rendo conto che capisce perfettamente l’italiano. Mangia avidamente una brioche e inghiotte una cioccolata bollente, come se il suo fisico fosse ormai abituato ad ogni eccesso.
Torno a chiedergli se ha bisogno di qualche aiuto economico. No, grazie, mi risponde. Questa volta in perfetto italiano. Quello che mi manca, dice, è qualcuno che mi voglia bene.
Gioco la carta della retorica buonista. Io ti voglio bene, butto lì. Dicono tutti così, ma poi tornano a casa loro, mi risponde nel suo italiano impastato di tedesco. Gli faccio presente che se avrà la pazienza di lasciarsi far amare, anche lui troverà una casa da spartire. Mi sorride ironico, forse per farmi capire con quanta supponenza ho confinato la carità nel portafoglio. Decido che è l’ora del silenzio, oppure di usare il linguaggio degli occhi, che è ancora l’unico capace di raccontare qualche verità.
Mi saluta alzando una mano che sa di ruggine. Ma solo per il colore. Vicino c’è un pianoforte, messo lì per i viaggiatori in vena di esibire le loro competenze musicali, come oggi va di moda.
Hans si avvicina a passi lenti. Poi si siede sullo sgabello e stende le mani, dalle unghie nere, sopra il bianco della tastiera. Ma sono mani che improvvisamente si sciolgono nel canto più struggente di ogni vero Natale. Risuonano intorno le note di Stille Nacht, misurate, armoniose. Corrono le dita sulla tastiera, dolci, competenti. Piene di preparazione musicale, ma anche di sentimento e di nostalgia.
Guardo i suoi panni sporchi e buffi e col pensiero vado a Betlemme in una stalla, dove in quella notte, di bello da vedere c’era ben poco, se non la povertà. Chiudo gli occhi e bevo la musica intorno, pensando agli angeli che annunciavano ai pastori tempi nuovi di grazia. Mi chiedo cosa avrà visto il buon Dio nel cuore di quel suo figlio. Io certamente ho visto il Natale.

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