Il Fatto di Bruno Fasani
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Il “meccanico” solitario che aggiustava gli errori di un’ambigua modernità

Scrive l’amico Piero, papà e cristiano a tutto tondo: “È triste lasciare alla storia il compito di celebrare la grandezza di un uomo...

Parole chiave: Il Fatto (420), Bruno Fasani (328)

Scrive l’amico Piero, papà e cristiano a tutto tondo: “È triste lasciare alla storia il compito di celebrare la grandezza di un uomo, soprattutto quando la grandezza era manifesta, benché incompresa. Benedetto XVI diffondeva l’eterno messaggio di una fede che non deve accattivarsi la simpatia di tutti, proprio perché come la Verità non ne ha bisogno. La Verità rende liberi e Benedetto XVI ha sempre spinto la libertà dell’uomo ad aderire al progetto di Dio. Una libertà che ha mantenuto anche per se stesso, decidendo liberamente di rinunciare al ruolo di regnante e non certo a quello di testimone credibile dell’invisibile nel mondo”.

Se la Chiesa deve dare ascolto alle parole e alle testimonianze dei laici, penso che in queste righe si nasconda il sentire di tanti cristiani, ispirati da quel sensus fidei di cui ci parla il Concilio Vaticano II e che viene giudicato una risorsa fondamentale per la nuova evangelizzazione. In questi momenti in cui l’amarezza per la morte del Papa emerito si unisce alla ridda dei commenti, c’è una frase del Vangelo che mi torna alla mente come un ritornello da memorizzare nella coscienza. Viene dal capitolo sesto di Matteo, là dove si parla della pratica della vita cristiana. Gesù, per tre volte di seguito, a sbugiardare la possibile ipocrisia della forma senza sostanza, dice che «il Padre, che vede nel segreto, darà la ricompensa». È alla luce di queste parole che mi è caro pensare papa Benedetto XVI alla presenza di Dio, quel Padre che scruta i segreti del cuore per scoprire le ricchezze che vi sono nascoste, insieme alle lacrime che si sono depositate tra le pieghe. «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Ed è bello pensare che, per questo uomo di Dio, è arrivato il tempo della beatitudine.

Se la trasparenza del cuore vale per gli autentici uomini di Dio, altrettanto vale per chi è stato causa della loro sofferenza e che ora si esibisce negli svolazzi ipocriti di commenti celebrativi, che puzzano di falso e di retorica. È vero che in genere coi morti si è sempre propensi ad essere indulgenti. Ma non è il nostro caso. Qui l’enfasi celebrativa assomiglia piuttosto all’opportunismo di chi si mette d’accordo con l’avversario, all’ultimo minuto, per paura del confronto quando la storia ha già preso il metro per valutare le effettive misure dei suoi protagonisti. È stato quasi un gioco di squadra, un diffuso pettegolezzo di portineria quello che ha voluto dipingere papa Ratzinger come conservatore, nemico della modernità e, in definitiva, dell’uomo. Eppure sarebbe bastato leggere qualcuno dei suoi scritti per capire quanto avanti fosse, come tutti i veri condottieri, chiamati a indicare la strada, camminando avanti in solitudine.

C’è un’idea strana di progresso in circolazione, che spesso altro non è che una forma ostinata di conservazione. Ricordo la fine del secolo scorso quando ancora si guardava al ’68 come l’epoca d’oro dell’umanità, senza rendersi conto di quante ambiguità quegli anni fossero stati portatori. Un po’ come ostinarsi su un modello di auto, idealizzandolo, solo perché ultimo in ordine di tempo, salvo scoprire poi di quanti aggiustamenti avesse bisogno per essere all’altezza delle aspettative. Progresso non è allora l’auto di ultima produzione, ma il meccanico che ne individua le fragilità, per migliorarne il servizio è il vero progressista.

Papa Benedetto è stato il “meccanico” della Chiesa, colui che ha avuto il coraggio di correggere gli errori di chi si adagiava sull’illusione di una modernità dove, a soccombere non era solo Dio, ma soprattutto l’uomo.

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