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«Curare anche gli immigrati aiuta loro e aiuta pure noi»

di LUCA PASSARINI
Il Cesaim: troppi arrivano con disturbi psichici 

«Curare anche gli immigrati aiuta loro e aiuta pure noi»

di LUCA PASSARINI
L’incontro con il dott. Gianfranco Rigoli, presidente del Cesaim (Centro salute immigrati), a margine della presentazione del dossier sull’immigrazione, ci offre l’occasione per continuare a parlare della sanità italiana, con le sue eccellenze nelle cure e le carenze numeriche nel personale, gli interventi urgenti gratuiti e prestazioni che ormai necessariamente diventano a pagamento. Queste contraddizioni le guardiamo questa volta dal punto di vista di quelli che spesso sono gli ultimi e gli invisibili.
– Dottore, che esperienza ha, prima di tutto come cittadino, ma anche come operatore del settore, in questo ultimo periodo della sanità italiana e veneta in particolare?
«Sono sinceramente preoccupato per due motivi. L’articolo 32 della Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Questo principio, che ha fatto del nostro Servizio sanitario nazionale (Ssn) un modello che molti Paesi occidentali ancora ci invidiano, è oggi messo in discussione. Da un lato, una programmazione miope ha reso sempre più difficile l’accesso alle facoltà mediche; dall’altro sembra vi sia una vera e propria crisi di “vocazioni” nelle professioni di cura. Vi sono sempre meno medici e infermieri sul territorio e negli ospedali, e sempre più stressati e frustrati per una professionalità poco riconosciuta e per i carichi di lavoro crescenti. Se a tutto questo aggiungiamo il peso della burocrazia, non ci deve stupire l’osservazione comune di molti pazienti, di una minor disponibilità di medici e infermieri, in termini di tempo e di contatto umano. Fiorisce nel frattempo la sanità privata. Ritengo necessario un serio ripensamento politico, per restituire al Servizio sanitario pubblico il ruolo centrale di eccellenza che merita e soprattutto la fiducia dei cittadini».
– Che esperienza ne fanno gli immigrati? «È necessario premettere che quanti sono titolari di un permesso di soggiorno, lavorano e hanno una residenza, possono accedere al Ssn alle stesse condizioni dei cittadini italiani. C’è però una fascia di persone che, per vari motivi – tra cui ingresso in Italia senza un regolare controllo alla frontiera, mancanza o ritardo nel rilascio del permesso di soggiorno, mancanza di un lavoro o lavoro “sommerso”, perdita del lavoro e della residenza, ritardi nel rilascio della tessera sanitaria – non può o non riesce ad ottenere l’iscrizione al servizio. Nella nostra provincia il numero di quelli che vengono detti “irregolari”, termine che io non amo, oscillerebbe fra le 5 e le 13mila unità. La legislazione vigente, che a mio parere è piuttosto avanzata, prevederebbe anche la loro tutela; uso il condizionale, perché le normative trovano crescenti ostacoli alla loro applicazione; col risultato che a molte persone è di fatto precluso l’accesso alle cure mediche che non siano urgenti. Esistono sotto-popolazioni con particolare vulnerabilità, come le donne in gravidanza, i minori, le persone con storia di dipendenza, le persone con malattie croniche o invalidanti, le persone con disturbi psichici, per le quali la preoccupazione in tal senso è maggiore».
– A tal proposto di cosa hanno bisogno solitamente gli immigrati? Noi spesso immaginiamo di tratti di malattie “del loro mondo”.
«Le malattie “esotiche” e la patologia da importazione, pure meritevoli di attenta osservazione, rappresentano una minoranza nella nostra casistica. L’esperienza decennale del nostro Centro mostra che le richieste di assistenza medica riguardano più frequentemente malattie tradizionalmente considerate del “primo mondo”, come ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari e diabete mellito, accanto a problemi ginecologici, ortopedici e psicopatologici. In particolare, stiamo osservando un trend crescente di questi problemi, con talora quadri psicopatologici conclamati, soprattutto nel gruppo delle persone che richiedono protezione internazionale, evidente conseguenza di un vissuto migratorio, che spesso dura anni, caratterizzato da esperienze di reclusione, violenza, tortura».
– Come interviene ora lo Stato e come, secondo lei, dovrebbe intervenire, proprio in un momento in cui si parla di un contributo di 2mila euro in carico agli extracomunitari residenti in Italia che vogliano usufruire della sanità pubblica?
«In realtà, in questi decenni sono soprattutto gli enti del Terzo settore a farsi carico di queste situazioni. Sentiamo pressante la necessità di un coordinamento col Servizio pubblico, per consentire l’accesso ai centri di salute mentale anche a queste persone. In particolare, il contributo dei 2mila euro penso si tradurrà in un minor ricorso alle cure, col rischio di non riconoscere e curare adeguatamente patologie potenzialmente pericolose non solo per la persona, ma anche per la collettività. Di fatto, la sola applicazione non restrittiva della normativa vigente consentirebbe certamente una facilitazione per molti di accedere ai servizi sanitari necessari».
– Che cosa offre e propone loro il Cesaim?
«Il Cesaim rappresenta a mio parere un buon modello di collaborazione fra ente pubblico e Terzo settore. Ci rendiamo conto che, come in molti altri settori, il Terzo settore non può svolgere una funzione sostitutiva nell’erogazione di servizi che dovrebbero essere garantiti a tutti i cittadini presenti sul territorio, ma dobbiamo fare i conti con la realtà problematica in cui versa la sanità ai nostri giorni. Il Cesaim offre disponibilità e competenza, e questo non è poco, anche se non può essere tutto».
– Per concludere, mi permetto di provocarla un po’: in fin dei conti, è colpa delle cure agli immigrati che la sanità è sempre più lenta e cara?
«Questa è una affermazione priva di qualsiasi contenuto scientifico».
– E perché un italiano dovrebbe pagare le cure per un immigrato?
«La vita collettiva richiede una partecipazione solidale verso le fasce di popolazione più deboli e vulnerabili, non dimenticherei che gli “italiani” comprendono anche i molti immigrati che vivono e lavorano nel nostro Paese e che contribuiscono, come ci dicono i dati statistici, in modo rilevante alle entrate dello Stato». 

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