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Qui Mozambico: «Evangelizzare per rigenerarsi»

di NICOLA SALVAGNIN
Il vescovo Domenico nella missione di Namahaca

 

Qui Mozambico: «Evangelizzare per rigenerarsi»

di NICOLA SALVAGNIN
Potenza e magia di internet, che permette di videochiamare un Vescovo – il nostro, mons. Domenico Pompili – che si trova a 7mila km di distanza, in quel Mozambico che è una vasta fetta dell’Africa sudorientale. Mica nella capitale o in qualche metropoli; ma nella regione di Namahaca, nel nord del Paese, «ad un’ora e mezza dalla prima città, un’ora e mezza di auto che percorre una strada... beh, chiamiamola così».
Il vescovo Domenico ha trascorso buona parte di giugno in quel lembo del continente, con la “scusa” di andare a trovare due preti veronesi – don Francesco Castagna e don Fabio Gastaldelli – che sono fidei donum nella diocesi di Nacala. Settantacinque comunità, sparse in un territorio grande come metà della nostra diocesi, dove (oltre a loro) operano dal 1948 pure i comboniani. Ad accompagnare mons. Pompili, il direttore del Centro missionario don Giuseppe Mirandola e don Mattia Compri.
– Eccellenza, come va? (Va benone, lo si vede dal videotelefono: eppure ne ha fatte di tutti i colori e ha in programma di non mollare l’acceleratore fino al momento della partenza, ndr).
«Bene, bene. A parte il caldo micidiale. Ed è inverno qui, non oso pensare cosa sia l’estate...».
– E com’è lì, in Mozambico, Paese che noi italiani faticheremmo a trovare sulla carta geografica?
«È un Paese giovane, vivace, povero ma voglioso di crescere e migliorare. C’è stata la dominazione coloniale portoghese. Quindi l’indipendenza, ma è sopraggiunta una terribile guerra civile che l’ha prostrato. Sta cercando di rimettersi in piedi, anche se da nord arrivano gruppi terroristici jihadisti “forestieri” che seminano terrore. Ricordo l’assassinio di suor Maria De Coppi, la comboniana trevigiana uccisa l’anno scorso. Ho visitato la sua tomba».
– Ma la popolazione vive in pace? «La maggioranza è musulmana, ma non ci sono problemi con la minoranza cattolica. C’è rispetto, c’è la comune voglia di superare le difficoltà. Anche qui la pandemia da Covid ha creato problemi».
– E la Chiesa locale?
«Noi veronesi siamo protagonisti. Abbiamo qui don Francesco e don Fabio, altre forze seguiranno. Da san Daniele Comboni in poi la presenza della nostra Chiesa in Africa non è mai mancata. I comboniani poi hanno una missione qui e sono particolarmente attivi. Ho visitato e conosciuto tutti: è stato rigenerante, perché solo esperienze così ti permettono di ripartire da ciò che è essenziale. Per noi cattolici, evangelizzare è una forma di promozione umana».
– Che mondo è quello in cui si trova?
«Per certi versi sembra l’Italia di un secolo fa, poi vedi tanti giovani (sono tanti, la popolazione è molto giovane rispetto ai nostri standard) con il telefonino, capisci ormai che il mondo è tutto interconnesso. La povertà è forte, le difficoltà sono veramente... solide. Noi diamo il nostro contributo con un centro nutrizionale che affianca le giovani mamme soprattutto nel periodo dell’allattamento; con un convitto per le ragazze che sono anche qui la parte più debole della popolazione; con una presenza religiosa che si allarga a quei laici che riescono a portare il Vangelo in tutte le comunità, tenendo conto che i preti le possono visitare due-tre volte l’anno. Ogni domenica c’è un catechista che offre l’ascolto della Parola di Dio».
– Ricordi forti?
«Tanti, veramente. Dalle miniere d’oro a cielo aperto dove lavorano donne e bambini a mani nude, alle tante persone che ho incontrato, ai battesimi... A quell’incredibile offertorio in cui centinaia di persone si sono messe in fila per donare quel pochissimo che avevano: un bottone, un frutto... Una cosa che mi ha fatto venire i brividi». Mentre parla non sta fermo un secondo. Ad un certo punto intercetta prima don Francesco («è stato bello avere la possibilità di fare comunione tra noi. Dopo gli anni del Covid e le difficoltà che ho provato personalmente...»), poi don Fabio: «Vieni qui che c’è Verona su Whatsapp!».
– Don Fabio, come va?
«Giorni intensi: bene! Noi stiamo qui a grande distanza, ma ci sentiamo sempre accompagnati dalla Chiesa di Verona e dalle comunità da dove proveniamo».
– E cosa le sta insegnando questa esperienza da fidei donum?
«Anzitutto a relativizzare quelli che noi chiamiamo problemi. Non dimentichiamo mai che ci sono tante, tante persone che stanno molto peggio di noi. E qui ti rendi conto che stereotipi e slogan non funzionano: siamo veramente tutti figli di Dio e fratelli tra noi. Quindi la cosa migliore da fare è aprirsi, con la voglia di conoscere e imparare». Il collegamento tiene, è quasi più facile collegarsi da Verona a Namahaca, che a Breonio. – Mons. Domenico, ne farà altre di simili esperienze? «E come no! Le consiglio a tutti, laici e religiosi: sono momenti forti per la propria esistenza, e lo dico soprattutto ai ragazzi. Poi sono estremamente felice di una cosa: aver toccato per mano quale sia il cuore e la solidarietà attiva della Chiesa di Verona. Lasciatemelo dire: esemplare». Buon ritorno: troverà qui tante cose diverse da lì. Ma lo stesso appiccicoso caldo africano che le tesserà il filo della nostalgia. 

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