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«Piange la culla se non la rendiamo più confortevole»

di ADRIANA VALLISARI
Il demografo Rosina: combattere la denatalità 

«Piange la culla se non la rendiamo più confortevole»

di ADRIANA VALLISARI
Senza politiche familiari serie, pensare che le giovani coppie italiane mettano al mondo più figli è un’illusione. Senza una società che riconosca il valore della maternità e della paternità, è utopico pensare che ci sarà un boom di nuovi nati. Senza un vero investimento sulla realizzazione dei giovani – trovare casa, lavoro, servizi adeguati – è difficile che questi si lancino da soli ad allargare la famiglia. «Finché il nostro Paese non investe sui giovani e sulle loro scelte di vita, raggiungendo almeno i livelli medi europei, la questione della denatalità non migliorerà da sola», evidenzia Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano. Ecco spiegato perché, nonostante i due figli desiderati sulla carta, il tasso di fecondità in Italia è fermo a 1,25 figli per donna; ben lontano da quel 2 che consentirebbe la sostituzione tra le generazioni e un equilibrio demografico.
– Professore, stando così le cose, ci aspetta un crollo demografico?
«La prospettiva è quella di una diminuzione della popolazione italiana, perché anche l’immigrazione non sarà più in grado di compensare questa tendenza negativa. Ma soprattutto ci sarà un divario sempre più ampio tra decessi e nascite, con degli squilibri nella popolazione. Ci saranno due andamenti opposti: sempre più anziani e sempre meno giovani. Il problema principale è questo: se da un lato è positivo l’aumento della popolazione anziana, come prospettiva di vita più lunga, dall’altro bisognerà mettere in conto che serviranno più cure e assistenza».
– Costi che dovrebbero essere sostenuti dalla fascia di popolazione in età lavorativa?
«Esatto. Il sistema sarà sostenibile solo se ci saranno nuove generazioni che faranno funzionare l’economia, il sistema di welfare, la rete sociale. Significa, per esempio, che le aziende avranno ancora più difficoltà ad assumere e che si troveranno sempre meno infermieri o autisti del trasporto pubblico. Bisogna rispondere a questo inverno demografico».
– Si può ancora invertire la rotta? Se sì, come?
«È urgente dare risposte con politiche adeguate, ispirandoci ad altri Paesi europei. Come in Francia, dove si arriva a 1,8 figli per donna: significa che anche se il tasso di fecondità è sotto a quello ottimale di 2 (perché a due genitori corrispondono due figli, quindi si mantiene un equilibrio), la sostituzione è più lenta. In Italia il tasso di fecondità è di 1,24. Un divario su cui possono agire le politiche per consentire ai giovani di conquistare autonomia dalla famiglia d’origine, essere ben formati e inseriti nel lavoro, avere una casa, contrastando al contempo il fenomeno dei Neet (under 35 che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione). E mettendo le donne in condizione di lavorare: quindi servono più servizi per l’infanzia e nidi, un’equiparazione dei congedi di paternità e maternità, migliori politiche aziendali per la conciliazione famiglia-lavoro: tutti aspetti su cui siamo deboli. Questo fa sì che si rinvii la scelta del primo figlio: in Europa siamo fra chi inizia più tardi, in media a 32 anni».
– Quanto tempo abbiamo per incidere?
«Basterebbero 10-15 anni per dare un segnale forte e mettere in campo queste misure, rafforzandole di anno in anno e recuperando il divario con gli altri Paesi europei. Però più aspettiamo a investire sulla natalità, peggio è: perché le donne in età riproduttiva saranno sempre di meno». – Altri Stati erano messi come noi e poi hanno recuperato? «La Germania: partiva da livelli più bassi dell’Italia e in 15 anni ha recuperato, invertendo la tendenza. Ma da noi basta andare in Trentino-Alto Adige, dove la fecondità è più alta grazie a misure solide portate avanti nel tempo».
– L’assegno unico introdotto dal Governo Meloni è insufficiente?
«È finalmente una misura strutturale. Viene erogato dagli ultimi mesi di gravidanza fino ai 18 anni del figlio, mensilmente. Il fatto è che va rafforzato dal punto di vista dell’importo. Negli altri Paesi supera i 200 euro al mese, la parte base universale in Italia è di 50 euro a bambino. Ma la Banca d’Italia calcola che un figlio costa 700 euro al mese. Il messaggio che passa non dice: “Ti diamo il meglio delle misure”, perché stiamo dando un aiuto molto più debole di altri Paesi europei».
– E il Pnrr, invece? Non dovevamo costruire un sacco di asili nido?
«I soldi sono stati dati, ma adesso si gioca tutto sull’effettiva realizzazione. Dobbiamo ancora dimostrare concretamente che si costruiranno nuovi nidi in tempi brevi, garantendo l’accesso per tutti, con costi accessibili e una qualità adeguata perché non siano solo un parcheggio, ma un luogo di socializzazione. Altrimenti il nido continuerà a essere un servizio a domanda individuale, di difficile accesso e costoso: questo crea una forte incertezza nelle giovani coppie, col rischio che uno dei due genitori, spesso la madre, debba lasciare il lavoro».
– Torniamo sempre lì: la nascita di un figlio non è solo un fatto privato, ma ha un valore sociale.
«È la prima condizione: il figlio non è costo a carico dei genitori, ma una risorsa su cui il territorio dimostra la volontà di investire. Sentire che si ha attorno una comunità supportiva, percepire che avere un figlio è una scelta di valore, fa la differenza. Il segnale deve arrivare dalla società, altrimenti i giovani saranno sempre più cauti, lasciando in sospeso questa scelta. Se loro stessi sono i primi a essere in difficoltà, come possono pensare di avere figli, che è il maggiore investimento del presente nei confronti del futuro?». 
Foto Alinsa@123RF.com

 

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