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«Culle vuote: siamo nell'inverno demografico»

di FEDERICO CITRON

In Italia nascono sempre meno bambini e la pandemia non ha migliorato la situazione: i numeri del presidente dell'Istat Gian Carlo Blangiardo

«Culle vuote: siamo nell'inverno demografico»

di FEDERICO CITRON

La popolazione italiana è simile ad un lago in cui l’immissario non riesce a compensare quanto esce dall’emissario. Perciò il lago si va prosciugando. Usa questa efficace immagine il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, per descrivere «il drammatico» andamento demografico del nostro Paese.
Nei giorni scorsi Blangiardo era a Treviso, per intervenire al Festival della statistica, invitato dal Forum delle famiglie del Veneto, l’associazione per la promozione di politiche familiari che intende creare alleanze per la natalità con le amministrazioni locali, la Regione, le associazioni di categoria, l’Inps, le Camere di Commercio...
 «Dal 31 dicembre 2013 la popolazione italiana progressivamente sta diminuendo – spiega Blangiardo –. In sostanza le nascite non sono sufficienti a compensare i decessi, anche al di là della pandemia. Finché il saldo migratorio positivo riusciva a compensare questa differenza, la popolazione è cresciuta. Quando la capacità attrattiva del nostro Paese si è ridotta, sono venute a diminuire le forze nuove. Questo è un problema: non c’è ricambio generazionale, che è ciò che alimenta la vitalità di una popolazione e questo ha come diretta conseguenza l’invecchiamento della popolazione».
Per farci capire cosa significhi il venir meno del ricambio generazionale, Blangiardo fa un esempio: «I nati nel ’64 erano più di un milione e oggi hanno tra i 56 e i 57 anni e sono quasi tutti vivi. I bambini nati nel 2020 sono stati 404mila, quindi meno della metà dei 56-57enni. Questo altera la struttura della popolazione, perché i 56-57enni fra vent’anni diventeranno ottantenni con bisogni di assistenza e welfare, mentre entreranno nel mercato del lavoro 404mila persone. Questo genera uno scompenso negli equilibri che garantiscono la sostenibilità del sistema economico, sociale, assistenziale, sanitario... Il tutto aggravato da famiglie più fragili perché si reggono meno sulla solidarietà e sulle relazioni tra collaterali: perché se c’è un figlio unico, non ci sono i fratelli e tutta una serie di figure che rientrano nella sfera del parentado».
Invertire la tendenza non è semplice, dato che l’età media al parto ha raggiunto i 32,2 anni e i figli medi per donna sono 1,24 (erano 1,40 solo nel 2008): «Come conseguenza degli effetti generazionali, sta calando la popolazione femminile in età riproduttiva – spiega ancora Blangiardo –. La componente femminile dei famosi nati negli anni ’60 ha via via raggiunto l’età fertile ed ora ne è uscita. Al suo posto sono entrate generazioni di donne venute al mondo negli anni ’80, quando i nati all’anno erano già passati da un milione a seicentomila. Il salto, la cascata importante, l’abbiamo già digerita; ora dobbiamo in qualche modo gestire i flutti più modesti che, comunque, sono un problema perché ci sarà un cambiamento nella dimensione numerica delle donne in età feconda e questo è un remare contro. Poi c’è l’effetto del calo dei matrimoni: la nuzialità nel 2020 si è dimezzata e questo produrrà dei problemi sulle nascite dei primogeniti. Ciò non toglie che il desiderio di paternità e maternità sia ancora fortemente sentito: i modelli ideali dei giovani sono ancora sui due figli per coppia. Si tratta di recepire questa domanda insoddisfatta e di attivare una serie di leve che aiutino, non dico a tornare a livelli alti, ma a bloccare la discesa e a segnare qualche piccola ripresa. Ci sono Paesi europei come la Polonia, l’Ungheria, la Slovacchia, la Germania, che hanno saputo invertire la tendenza. Hanno agito su più fronti: sicuramente importante è l’elemento economico, dove serve un’azione seria, non il bonus sporadico. L’assegno unico è una valida idea».
A peggiorare la situazione ci ha messo del suo anche il Covid-19: «Dicembre 2020 segna, rispetto a dicembre 2019, un 10,3% in meno di nascite con punte del meno 15% in Lombardia – illustra Blangiardo –. Ciò vuol dire che a marzo 2020 molte coppie, specie nelle aree più critiche, si sono spaventate e hanno rinunciato a concepire un figlio. Questo gioco si ripete nel gennaio 2021 con il 14% in meno rispetto al gennaio 2020. La stessa cosa avviene a febbraio con un meno 4%. Colpo di scena a marzo del 2021 con una variazione positiva del 3,9% che riflette il clima di fiducia di nove mesi prima. Attenzione però: il recupero è dovuto ai parti di donne laureate e italiane, mentre le donne straniere hanno una variazione negativa di nascite dell’8% rispetto all’anno precedente, perché probabilmente non si sono spaventate solo degli effetti sanitari, ma anche di quelli economici. L’effetto pandemia non è solo paura, sul modello dell’effetto-Chernobyl, perché qui è entrata in gioco anche una preoccupazione di natura economica. Mi aspetto che la seconda ondata, che si è manifestata tra ottobre e novembre dello scorso anno, si faccia sentire sui dati di luglio di quest’anno. Tutto ciò dovrebbe portare il totale di nascite del 2021 sotto i livelli dei 400mila dello scorso anno».
L’inverno demografico riguarda tutto il Paese, compreso il Triveneto, con la solita eccezione di Bolzano, «dove la situazione è migliore che altrove, ma pur sempre difficile». Il Nordest – conclude Blangiardo – «ha avuto un effetto immigrazione, ma anche questo si sta esaurendo: i nati da genitori immigrati sono passati, a livello nazionale, da 80mila nel 2012 a 60mila nel 2020». 

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