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Intervista a fra’ Paolo Crivelli, cappellano del carcere di Montorio

di MARTA BICEGO

«Dietro i “cattivi” una storia che merita comprensione»

Intervista a fra’ Paolo Crivelli, cappellano del carcere di Montorio

di MARTA BICEGO

Scuote la coscienza sentir accostare la parola gioia a un luogo come il carcere. Come se gli spazi di quest’ultimo fossero deputati solamente a racchiudere l’afflizione, la pena. Forse il pentimento. La gioia di cui parla fra’ Paolo Crivelli, da inizio settembre cappellano del carcere di Montorio, lascia intendere che, pur nelle difficoltà di questi confini ristretti, qualcosa si può dare e ricevere anche tra i corridoi e le celle.

Svizzero di origine, con una formazione in Economia aziendale, è entrato in comunità all’età di 28 anni; da religioso, è stato per sei anni vicario generale della Fraternità francescana di Betania, poi per 14 anni superiore generale, fino al maggio scorso. Tra le sue esperienze si aggiunge quella di missionario in Brasile. Fino alla proposta, inattesa, che l’ha portato a entrare nella Casa circondariale di Verona. Ed è stato, dice, «un colpo di fulmine».

– Si torna periodicamente a parlare di carcere. A volte in maniera, mi passi il termine, morbosa: penso, ad esempio, all’arrivo a Montorio di Filippo Turetta, accusato dell’omicidio di Giulia Cecchettin. A volte quando affiorano fenomeni drammatici come quello, recente, dei suicidi. Perché? Eppure le persone, in carcere, rimangono tutti i giorni, spesso per anni. 

«La mia impressione è che ci sia proprio un atteggiamento morboso nei confronti del carcere. Così nell’opinione pubblica: i detenuti sono visti come i “cattivi”, coloro che hanno sbagliato e devono pagare, mentre noi che siamo dall’altra parte siamo i “buoni”. Di per sé, non capiamo che dietro a ogni persona c’è una storia di grande dolore, sofferenza, disagio. Sicuramente di errori dai quali noi siamo stati preservati, non per nostro merito ma perché siamo nati nel posto giusto, abbiamo ricevuto un’educazione adeguata, non ci sono state quelle coincidenze che ci hanno portato a delinquere. C’è un interesse alterno, che è anche un modo per rassicurarsi di essere dalla parte giusta: quella dei buoni».

– Invece, rovesciando la visuale, che percezione hanno i detenuti del fuori e della società?

«Ci sono tante situazioni di disagio, anche di natura psicologica o psichiatrica, legate soprattutto all’abuso di droga e alcool che rendono la convivenza difficile. Dentro incontro però tante persone normalissime, anzi, ricche di umanità pur prostrate nelle fatiche che la vita carceraria comporta. In carcere si vive e convive a contatto con sconosciuti, che probabilmente non avrebbero scelto, con cui devono condividere spazi ristretti».

– Che impressione ha avuto la prima volta che è entrato a Montorio?

«Ho trovato un luogo migliore di quello che era nel mio immaginario. Dall’altra parte, è stato ed è un luogo di grande gioia. Sono felice di essere lì, di condividere le mie giornate, di interagire pur per tempi non lunghissimi dato il ricambio continuo di detenuti. Però riescono comunque a nascere delle relazioni di amicizia, con una profondità e velocità forse dovuta alla situazione in cui ci si trova».

– Il compito della cappellania quale è: incontrare, ascoltare, esserci?

«C’è l’aspetto spirituale, come la celebrazione delle Messe o le confessioni. Poi ci sono l’ascolto, i colloqui, le varie forme di aiuto che vanno dai contatti con i familiari al supporto materiale nel fornire ad esempio vestiti, occhiali da vista o medicine. Siamo per loro la possibilità di un incontro libero, senza veli, basato sulla fiducia».

– Ricorda un episodio, in particolare?

«Un abbraccio, ricevuto al termine di una confessione da un omone che faceva il buttafuori. Si è messo a piangere e, commosso, mi ha detto che quello era stato il primo gesto di umanità ricevuto da quando era entrato in carcere».

– A proposito di spiritualità, come si concretizza la convivenza tra diverse religioni?

«Circa la metà dei detenuti sono di origine islamica. Ci sono persone con cui non riuscirai mai a trovare un contatto, altre che incroci e con cui nascono momenti di confronto e condivisione, che può essere un aiuto nel momento in cui usciranno da lì».

– Il carcere riesce davvero a rieducare, ad accompagnare verso una strada diversa?

«Il carcere non riesce a fare molto da questo punto di vista. Un po’ perché il numero di persone deputate a occuparsi di questo aspetto è limitato. Quella di Montorio è una casa circondariale con persone in attesa di giudizio o lì per pene brevi, ed è difficile intraprendere con tutte un percorso riabilitativo. L’ordinamento prevede che l’area trattamentale non si occupi di chi non ha ancora finito il percorso penale, fino alla Cassazione. Quindi possono trascorrere anni prima che alcuni possano ricevere un’osservazione da un educatore o da uno specialista».

– Cosa manca maggiormente?

«Con i fondi del Pnrr, sono stati organizzati corsi formativi e professionali. Manca invece la possibilità di un lavoro, soprattutto per chi ha pene più lunghe. Di un’occupazione che deve essere giusta e giustamente retribuita con un guadagno equo. La situazione è complessa e la stessa struttura non è stata pensata come un luogo per fare percorsi rieducativi».

– Come guarda un detenuto al dopo che lo attende: con paura, aspettativa?

«Tutti non vedono l’ora di uscire. Ma quando si avvicina quel momento, per alcuni diventa difficile da accettare, o addirittura un dramma, se non hanno un tetto o una rete sociale. Altri, purtroppo, sanno che torneranno a delinquere. Però ci sono non pochi casi di persone che hanno fatto un cammino di riflessione su se stesse, sulla propria vita e gli errori commessi: in loro c’è una capacità straordinaria di rinnovamento».

– Con la sua visita a Verona, papa Francesco visiterà il carcere. Si è già sparsa la notizia? E cosa pensa rappresenterà, per loro, questo incontro?

«La voce c’è, sanno che verrà. Ma una delle realtà più pesanti della vita di detenzione è la delusione. Molti detenuti, per salvarsi, evitano di crearsi delle aspettative. Sono al corrente che il Papa non sta benissimo e “radio carcere” diffonde anche delle fake news. Ma sarà un grande evento, incentrato sulla dignità, per loro che si sentono macchiati, guardati con giudizio. Il fatto che papa Francesco dedichi loro questo tempo sostanziale ha un significato straordinario. Li fa sentire non invisibili, non nascosti, ma persone con un valore». 

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