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L’insostenibile pesantezza dell’usa e getta

di ADRIANA VALLISARI
La moda grande produttrice di rifiuti

L’insostenibile pesantezza dell’usa e getta

di ADRIANA VALLISARI
Quanto inquina la moda? Tanto. È un aspetto ancora poco esplorato, ma ogni capo che indossiamo ha un impatto sull’ambiente. Sia per produrlo – energia, acqua, sostanze chimiche, trasporti e relative emissioni di CO2, per non parlare dell’impatto sociale (leggere alla voce manodopera) –, sia per smaltirlo. Specie nel nostro mondo occidentale, dominato dalla fast fashion (la moda usa e getta) che propone magliette a 3 euro, fatte con tessuti di scarsa qualità, che durano il tempo di pochi lavaggi e poi diventano stracci irrecuperabili. Prodotte in Paesi lontani – Cina, Vietnam, Bangladesh, India, Pakistan – entrano nei nostri armadi e alla fine del loro brevissimo ciclo di vita le ritroviamo sotto forma di montagne di rifiuti in Africa. O dietro casa.
Moda sostenibile
Negli ultimi anni sono aumentati i consumatori consapevoli di ciò che sta dietro agli abiti esposti sui manichini; sono l’avanguardia che “costringe” il settore a cambiare pelle e a migliorarsi. C’è chi lo fa con azioni di facciata, giusto per dire “Abbiamo a cuore il pianeta anche noi” – è il cosiddetto green-washing, ovvero la presentazione delle proprie attività come ecosostenibili, occultandone l’impatto ambientale negativo –, chi con scelte più forti e radicali. In ogni caso, qualcosa sembra muoversi. È quanto emerso la scorsa settimana alla sala convegni del Banco Bpm, con “Fashion reload. La sostenibilità del vissuto”. Un evento organizzato dal Foglio della Moda, inserto mensile del quotidiano Il Foglio, in collaborazione col Banco Bpm, che ha fatto parlare i protagonisti del settore, ad alti livelli.
Allungare la vita ai vestiti
Come si fa a dare maggior valore ai vestiti che indossiamo? «Occorre un cambio di paradigma: bisogna passare dall’economia lineare a quella circolare, che riusa i materiali e li rimette in circolo», ha sottolineato Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della moda. «Tra il 30 e il 40% delle materie prime utilizzate nella moda viene scartato nei processi di lavorazione: è una percentuale molto alta; se riuscissimo a ridurla e portarla al minimo, ne avremmo un vantaggio enorme – ha aggiunto –. Un altro dato importante è quello legato alla rivendita, al noleggio, alla riparazione e al remake, che oggi rappresentano il 3,5% dell’industria della moda; si stima che passando all’economia circolare nel 2030 arriveremo al 23%, con un fatturato di 700 miliardi in più». Riuso e upcycling Evitare gli sprechi e dare una seconda vita a vestiti e accessori, oltre che una questione di buon senso e di attenzione al pianeta, muoverà anche gli affari. Già adesso riuso e upcycling (ridare vita a un vecchio indumento, reinventandolo grazie al lavoro di un artigiano) stanno diventando delle buone pratiche, sempre più richieste. Ristrette per parecchi anni a una platea più circoscritta, stanno contagiando positivamente il mercato. Perché la “rivoluzione” presuppone, oltre che un diverso modello produttivo, anche di un balzo culturale, di educazione a ciò che si compra. «Del resto, se vogliamo avere ancora un pianeta vivo, dobbiamo entrare in quest’ottica: il riuso, il riciclo e quant’altro sono l’unica strada, e questo cambio di cultura lo vedo molto forte tra i giovani», ha aggiunto Capasa.
C’è molto da fare
Sovrautilizzo delle risorse, microplastiche che finiscono nell’ambiente, produzione di gas serra: l’economia circolare inverte tutte queste tendenze negative, con indubbi benefici. Un esempio lampante l’ha portato Dario Minutella, principal della società di ricerca e consulenza internazionale Kearney. «La produzione di un paio di jeans upcycled in Italia consente di ridurre fino all’83% le emissioni di CO2 rispetto a un jeans tradizionale, prodotto con materia prima vergine dall’Egitto, filata in Pakistan, confezionata in Cina e venduta in Italia: questo jeans produce oltre 11 kg di anidride carbonica, considerate le fasi di produzione e trasporto – ha detto –. Se invece il tessuto venisse recuperato in Italia dall’invenduto, dalla raccolta dei consumatori o da scarti di produzione, e qui riprocessato e trasformato in un nuovo denim, si produrrebbero meno di 2 kg di anidride carbonica». Perché allora l’industria della moda fatica ad andare in questa direzione? «Senza la convinzione piena dei consumatori e senza il loro ruolo attivo nel restituire alla filiera i materiali che a loro non servono più, possiamo fare dei grandi film sul futuro di quest’industria, ma non andiamo molto lontano», ha sottolineato Minutella, presentando i risultati di una ricerca condotta fra 2.500 consumatori italiani, francesi e americani. «In tutti e tre i Paesi gli intervistati hanno detto che smaltiscono i capi inutilizzati al cambio di stagione, il che denota un accumulo costante negli armadi – ha illustrato –. In generale, per i capi in buono stato, la preferenza è donarli o scambiarli con amici o parenti; mentre, per i capi danneggiati, francesi e italiani li portano ai cassonetti di raccolta, al contrario degli americani che li buttano nel cestino. Di certo, ovunque si può comunicare meglio la possibilità di dare una seconda vita a queste merci». La strada è tracciata L’industria della moda è incentrata sui consumatori, che vanno sempre più formati e sensibilizzati. Solo così, hanno convenuto gli ospiti del convegno, le scelte individuali aiuteranno il settore a cambiare il passo. I numeri in gioco sono imponenti: solo in Italia, sono 60mila le imprese impegnate nel settore della moda, con 600mila addetti e quasi 100 miliardi di fatturato. «L’Italia è il terzo esportatore mondiale nel comparto della moda, dopo Cina e Germania – ha ricordato Leonardo Rigo, direttore generale di Banca Aletti –. In Veneto il sistema conta 9.500 unità produttive, fattura 18 miliardi e ha oltre 100mila addetti e rappresenta il secondo settore per esportazioni dopo la meccanica». Gli interessi in ballo sono tanti, ma è nell’interesse di tutti imboccare una strada più sostenibile. 

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