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Benvenuti al lago d’Aral, un tempo era il quarto più grande al mondo

di ERNESTO KIEFFER 
Oggi è una distesa malsana di sabbia e polvere. Come mai? C’entra l’uomo...

Benvenuti al lago d’Aral, un tempo era il quarto più grande al mondo

di ERNESTO KIEFFER
Arrivare a Moynaq non è un’impresa da poco. Per chi si è già spinto fino a Khiva, splendida cittadina murata nel nord-ovest dell’Uzbekistan, occorre prima raggiungere Nukus, nota per il suo prestigioso Museo Savitsky che raccoglie alcune delle più interessanti opere delle avanguardie russe (molte delle quali qui nascoste e preservate dalla furia “iconoclasta” sovietica dal suo coraggioso direttore dell’epoca, da cui il museo ha poi preso il nome) e poi sorbirsi almeno altre quattro ore di bus attraverso una distesa infinita di sabbia, su strade bucherellate e decisamente poco confortevoli. La meta è una città che un tempo sorgeva sulle rive del lago e che oggi invece dista decine e decine di chilometri dalle sue sponde, ormai in gran parte ritirate. Già, perché fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso il lago d’Aral era una riserva d’acqua fondamentale per tutta l’area a cavallo fra le odierne Kazakistan e Uzbekistan. Stiamo parlando di quello che un tempo era il quarto specchio d’acqua più grande del mondo – dopo il Mar Caspio in Asia, il Lago Michigan e il Lago Superiore in nord-America e davanti al lago Vittoria, in Africa – che garantiva rifornimenti per l’agricoltura, pesca abbondante per le popolazioni locali e pure luoghi per la villeggiatura, con proprio Moynaq, a sud, considerata all’epoca regina del turismo sovietico. Il lago aiutava, inoltre, a rendere più miti gli inverni e a rinfrescare le estati di quelle zone dell’Asia centrale, che invece oggi risultano, in un senso e nell’altro, molto più feroci.
Una decisione folle
Ai tempi dell’Unione Sovietica il governo centrale di Mosca guidato da Nikita Krusciov decise di spingere sulla vocazione commerciale di tutta l’area, dove si produceva (e si produce tutt’ora) cotone. Con un provvedimento a dir poco folle si decise così di deviare il corso dei fiumi che approvvigionavano l’immenso lago, l’Amur Darya a sud – il mitico Oxus attraversato anche da Alessandro Magno all’epoca della sua campagna in Asia centrale – e il Sir Darya a nord. In questo modo si voleva alimentare da una parte le piantagioni già esistenti e ricavare dall’altra, al posto del lago, un ulteriore grande acquitrino dove coltivare le piante di cotone, che avrebbero potuto in quel modo trovare il loro habitat più congeniale. Avrebbero, appunto. La situazione è ben presto sfuggita di mano e quella che doveva rimanere una zona umida e ideale per quel tipo di coltivazioni è inesorabilmente diventata in poco tempo soltanto la prosecuzione dell’arido deserto dell’Aralkum, che circonda il lago. Quel che rimane della superficie lacustre ormai è meno di un terzo di quella di un tempo, con gran parte della popolazione locale che ha dovuto emigrare altrove o riadattare radicalmente i propri stili di vita e la propria economia.
Gli esperti hanno calcolato che il disastro dell’Aral abbia causato più di centomila sfollati, con i pescatori locali costretti ad abbandonare tutto e fuggire con le loro famiglie da quello che un tempo era il litorale. Il lago, oggi, è diviso in due rami: l’Aral del Nord, situato in gran parte in Kazakistan, che in qualche modo sopravvive grazie a una diga costruita anni fa dal governo di Astana e alle acque sotterranee che affiorano e mantengono costante il volume complessivo d’acqua; e l’Aral del Sud, in Uzbekistan, che sta lentamente ma inesorabilmente sparendo. Giorno dopo giorno. Come se non bastasse, il progressivo prosciugamento del bacino ha liberato una quantità immensa di sale che, portato dal vento, si è depositato sui terreni circostanti per chilometri e chilometri. Il 15% delle terre del Karakalpakstan è diventato così fin troppo salato per essere coltivato, generando un ulteriore danno all’ecosistema di queste zone. Per di più, l’incidenza dei tumori, delle malattie della pelle, degli occhi, dei problemi polmonari qui è la più alta dell’intera Asia centrale a causa delle ingenti quantità di pesticidi utilizzati nelle coltivazioni di cotone. Anche in questo caso si calcola che il disastro dell’Aral abbia causato più di cinque milioni di malati, fra cui anche quelli colpiti da tifo, epatite A e tubercolosi.
Carcasse di navi
A Moynaq nessuno può più pescare e gli hotel non ospitano più turisti in cerca di refrigerio nelle acque del lago. Ci sono solo anonimi e fatiscenti palazzi in stile sovietico e, tutt’intorno, una distesa infinita di sabbia, su cui giacciono, come enormi fossili, le carcasse arrugginite delle barche e dei pescherecci che un tempo solcavano le acque azzurre del lago. Solo i turisti, che hanno scoperto di recente l’Uzbekistan delle celebri Samarcanda e Bukhara come nuova meta da raggiungere in massa, arrivano fin qui allo scopo di fotografare il risultato di questo scempio e delle folli decisioni umane, che mai come in questo luogo risultano evidenti nella loro azione distruttiva della natura e degli ecosistemi vegetali e animali. L’Uzbekistan, che a parole e soprattutto per bocca del suo ex presidente Karimov ha sempre affermato di voler far di tutto per fermare l’agonia del lago, al contrario continua ancora oggi a pompare senza sosta acqua dall’Amur Darya per irrigare le piantagioni di cotone che costituiscono la principale fonte di sostentamento della sua sempre più asfittica economia. E il disastro si perpetra nella sua cecità, in un tragico circolo vizioso, in barba a qualsiasi allarme lanciato da esperti e scienziati. 

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