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«Ai nostri ragazzi sorridiamo: le parole da sole non bastano»

Il docente-scrittore Alessandro D’Avenia relatore del corso di aggiornamento professionale per gli insegnanti di religione: un approccio evangelico all’insegnamento

Parole chiave: Scuola (90), Giovani (99), Educazione (20), Insegnanti (6), Religione (7)
«Ai nostri ragazzi sorridiamo: le parole da sole non bastano»

Educare attraverso un sorriso. Parte da qui l’intervento del professore e scrittore Alessandro D’Avenia, ospite nei giorni scorsi al Teatro Ristori come relatore del corso di aggiornamento professionale per gli insegnanti di religione, organizzato dall’Ufficio scuola diocesano. A suscitare la sua riflessione è la statua del patrono di Verona, il San Zen che ride, osservata poco prima di arrivare in sala durante una rapida visita alla basilica.
L’immagine bonaria del “vescovo moro” comunica – secondo D’Avenia – «una dolcezza che convince. E voi, quante volte avete sorriso stamattina in classe?» ha incalzato il teatro colmo di docenti. «Nel sorriso c’è la presa di posizione nei confronti della realtà, è un gesto che implica una scelta di libertà, non c’è nulla di sentimentale. E anche se i lineamenti tradissero la stanchezza, la fatica, le lacrime, il nostro sorriso sarebbe la prova della carne che abbiamo preso una posizione».
Le parole dello scrittore hanno assunto poi il tono della testimonianza, ricordando il sorriso di quell’insegnante che gli ha cambiato la vita da ragazzino: «Don Pino (Puglisi, ndr) sorrideva sempre quando incrociavi il suo sguardo» e non era il sorriso ebete del rappresentante che deve vendere qualcosa, ma «il sorriso di chi accorda all’esistente lo sguardo di Dio», anche quando si rende conto che quell’esistente è ampiamente incompiuto, che la realtà è tutt’altro che perfezione.
È lo stesso sorriso accordato in punto di morte al suo assassino, il killer mafioso Salvatore Grigoli, che nonostante la giovane età aveva alle spalle oltre 40 omicidi e che da quello sguardo benevolo del beato Puglisi è rimasto folgorato, tanto da dare avvio a un processo di conversione.
«Don Pino o 3P, come lo chiamavano i ragazzi del quartiere di Brancaccio, a Palermo, passava la ricreazione in corridoio anziché in sala professori, perché la sua vita era importante in quei corridoi», la sua presenza lì costituiva la testimonianza di una vicinanza agli studenti, di una disponibilità ad accoglierli e a stare con loro. Perché per educare non occorre solamente la parola, è tutto il corpo che si mette in relazione con l’alunno: «Quando insegniamo, indichiamo sempre qualcosa, il nostro corpo indica sempre qualcosa. Il professore insegna con l’essere, è la carne che educa: concentratevi sui vostri corpi! La parola nel processo conoscitivo arriva alla fine della nostra esperienza di realtà, per ultima. E se poi la carne sconfessa la parola, sarà impossibile essere credibili».
Così anche l’appello del mattino diventa un momento fondamentale, quando lo sguardo del professore incrocia quello di ciascun studente e un sorriso può comunicare l’apertura a una relazione, l’invito ad accogliere una bellezza. «Viviamo in una cultura orfana, che ha perso la paternità di Dio. E cosa deve fare un orfano se non recuperare sguardi che non ha avuto? Ma lo sguardo che si cerca è quello della folla, e non basta mai. Si fa dipendenza, toglie la libertà».
È la ricerca spasmodica dell’apparire, il culto dell’esteriorità, dell’immagine di sé. In questo contesto «l’insegnante cristiano ha una marcia in più perché ha alle spalle uno sguardo che gli dice costantemente la sua bellezza e si traduce in capacità di sorridere, perché si sa amato nonostante le proprie fragilità. E vede negli altri le stesse fragilità e le ama attraverso quel sorriso».
Di qui la risposta alla domanda sottintesa nel titolo dell’incontro “L’insegnante tra professione e vocazione”: «Insegnare è mostrare il nostro spirito di vita. Il paradigma cristiano è svincolato dalla visione meccanicistica illuminista di “imparare-fare”, perché adotta la logica dello “stare-comprendere”. Ci possiamo dare in pasto agli alunni senza essere divorati perché qualcuno ci ha voluti esattamente lì, perché la mia presenza in questo contesto è necessaria e irripetibile».
Come ammette lo stesso scrittore è una concezione estremamente liberante, perché implica uno sguardo profetico e poetico sull’alunno che non sarà più l’oggetto delle aspettative del docente, ma soggetto di possibilità, un «ingrediente necessario alla salvezza di Dio» a cui l’insegnante ha il compito di trasmettere il coraggio di accettare la propria vita e di trovarvi uno scopo. L’approccio sarà lo stesso adottato da Cristo nel brano evangelico del giovane ricco. «Si parte sempre da uno sguardo: “guardatolo, lo amò”; a quel punto Gesù può fare una proposta e il giovane, liberamente, decide di andarsene; triste, perché ha perso l’occasione di essere fecondo, di essere felice, di avere questo amore sempre a portata di sguardo».
«Il gioco è tutto qui – ha concluso D’Avenia, –: se noi questo sguardo lo viviamo su noi stessi, sapremo trasferirlo agli altri. Altrimenti ci rifugeremo in una serie di soluzioni più o meno umane, che portano risultati più o meno accettabili, ma che alla lunga ci renderanno stanchissimi di questo lavoro».

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