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La grande Annalena Tonelli il bene fatto in silenzio

di ADRIANA VALLISARI
Libro celebra una donna che si diede tutta in cambio di niente 

La grande Annalena Tonelli il bene fatto in silenzio

di ADRIANA VALLISARI

“La vita ha senso solo se si ama”. E in 60 anni di vita, prima di essere uccisa nella sua Somalia, Annalena Tonelli ha amato molto. Amava anche il silenzio, questa missionaria laica originaria di Forlì, per oltre trent’anni impegnata a soccorrere i più poveri tra i poveri in Africa. E proprio la riscoperta del silenzio – tema rilanciato dal vescovo Domenico Pompili nella sua lettera pastorale alla Chiesa di Verona – è stato al centro del partecipato incontro organizzato venerdì scorso dalla Diocesi al teatro Nuovo San Michele. Per l’occasione, moderati dal direttore di Verona fedele e di Telepace, don Luca Passarini, si sono confrontati sulla testimonianza di Tonelli il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, e Annalena Benini, giornalista, scrittrice e neo-direttrice del Salone del libro di Torino. Sulla cugina di terzo grado mai conosciuta di persona, con cui condivide il nome, Benini ha scritto un bel libro, Annalena (Einaudi).
«Annalena ha riempito la sua esistenza di assenza di mediocrità, di continua concentrazione sul bene e sui modi per raggiungerlo, facendo fiorire gli esseri umani che aveva intorno, amandoli di un amore illuminato da una fede rocciosa e da una tensione mistica molto evidente, ma anche in modo molto concreto, senza chiacchiere ed elogi», racconta. L’abbiamo intervistata.
– Annalena Tonelli sfugge a ogni termine di paragone. Qual è il suo lascito principale, secondo lei?
«Annalena aveva dei lati veramente molto misteriosi, però il suo più grande lascito credo sia quello del bene quotidiano, che ha esercitato con desiderio, e non sacrificio, ogni giorno, perché dava un senso di pienezza alla sua vita. Per me è stato un incontro folgorante, perché mi ha costretto a farmi delle domande sulla pienezza della mia, di vita. Siamo due donne molto lontane: quando ho iniziato a lavorare, lei è stata uccisa. L’ho incontrata nelle parole, nel suo pensiero: ha scritto moltissime meravigliose lettere alla famiglia e lì dentro c’è tutto. E poi ho parlato con le persone che ha conosciuto: a ognuna di loro ha cambiato la vita».
– Non voleva che nessuno scrivesse la sua storia, lei per fortuna si è incaponita... L’avrà perdonata?
«Spero di sì. Ho cercato di non essere agiografica, entrando nelle ragioni di una scelta così estrema. E poiché mi sono appropriata di cose sue, nel libro le ho dato in cambio cose mie, le ho offerto la mia vita e la mia inadeguatezza».
– Annalena ha assaporato l’assoluto e ha voluto vivere la missione a modo suo. Era una solitaria?
«Non è stato facile avere a che fare con lei. Era una donna rocciosa, perché la strada del bene assoluto e quotidiano è una strada difficile. Volava molto alto e questo, a volte, la rendeva insofferente. Ma ha vissuto la vita che voleva vivere: con la libertà di fare il bene, di essere per gli altri e di appartenere soltanto a Dio e a nessun altro».
– È stata uccisa in Somalia, nel 2003, fuori dall’ultimo ospedale che aveva costruito. Se non fosse stata una donna forse sarebbe ancora viva?
«Non lo so, ma mi sono chiesta spesso quanto sia stato ancora più difficile per lei, essendo sola, bianca, non sposata e cristiana, farsi rispettare in un mondo maschile e musulmano. Ma a parte alcuni tentativi di screditarla, è stata molto amata per quello che ha fatto: ha costruito ospedali e scuole, ha insegnato a sordi e ciechi, si è spesa anche contro l’infibulazione femminile, senza mai catechizzare nessuno».
– Un pensiero che viene leggendo il libro è che il terrorismo e la guerra siano degli uomini. Le donne non combattono, perché hanno cara la vita loro e dei figli, delle sorelle, delle madri. Anche questa è una lezione di Annalena?
«Sì. Annalena si è spesa senza paura: è stata dentro a un genocidio in Kenya, è stata rapita, picchiata, ha vissuto un tentativo di linciaggio. Ha fatto tutto quello che riteneva, desiderando stare con le persone che amava e aiutava. Nei suoi scritti ho ritrovato Etty Hillesum, che è stata un po’ la sua musa, e Simone Weil, il pensiero femminile di una rivoluzione pacifica che porta avanti idee e cause che stanno a cuore a queste donne».
– Perciò ha scritto questo libro?
«Volevo che le persone guardassero Annalena Tonelli in un modo nuovo, senza dire “ecco la santa” o “che grande sacrificio ha fatto” o “che buona”. È stata umanissima nel suo essere assoluta: la sua è stata una storia d’amore, semplice e al contempo esagerata».
– In un mondo in cui tutti parlano e pochi ascoltano, a cosa serve la letteratura? A sollevare questioni, a far esercitare il pensiero, a stimolare il confronto...
«Sì, e a far spostare un po’ lo sguardo, a entrare in altri mondi, a guardare con occhi che non sono i tuoi. Se dopo aver letto un libro quelle pagine ci ronzano nella testa, hanno raggiunto il loro scopo».
– Da nuova direttrice del Salone del libro, come si destreggerà in un mondo in cui c’è una polemica al giorno, dimenticata dopodomani?
«Andrò avanti portando la mia passione per la letteratura, facendo incontrare gli autori ai ragazzi, mostrando che tante cose si possono leggere con profitto, interesse, ironia. Mi sento molto tranquilla rispetto a questo». 

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