Osservato da vicino nessuno è normale: verità scomoda ma da ricordare

“Da vicino nessuno è normale”. Questo adagio mi dicono fosse scritto all’ingresso dell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano. Una verità tanto evidente quanto scomoda e che in qualche modo facciamo fatica ad accettare. Cosa sia la normalità è oggetto per lo più di convenzione sociale, conformismo o pregiudizio e comunque, dobbiamo riconoscerlo, è sempre più facile considerare normale quello che siamo e facciamo noi, rispetto ai comportamenti altrui...

September 15, 2016

| DI Giovanni Maria Capetta

“Da vicino nessuno è normale”. Questo adagio mi dicono fosse scritto all’ingresso dell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano. Una verità tanto evidente quanto scomoda e che in qualche modo facciamo fatica ad accettare. Cosa sia la normalità è oggetto per lo più di convenzione sociale, conformismo o pregiudizio e comunque, dobbiamo riconoscerlo, è sempre più facile considerare normale quello che siamo e facciamo noi, rispetto ai comportamenti altrui.
Che cosa sono le Paralimpiadi se non la dimostrazione che da vicino nessun atleta può dirsi uguale ad un altro, come nessun uomo e nessuna donna? E che la cosiddetta normalità non è data dall’essere “normodotati” quanto dalla comune volontà di gareggiare perché vinca non semplicisticamente il migliore (espressione che contraddirebbe in termini una parte dello spirito dell’iniziativa) ma colui o colei che in quella gara o circostanza sia riuscito a dare il meglio di sé?
Sottolinearlo può essere l’antidoto giusto per contrastare l’aspetto deteriore di un agonismo e una competitività conflittuale che dallo sport si sposta al mondo del lavoro, della scuola e delle relazioni in genere, facendo danni di non poco conto.
Forse questo significa che non si tratta di aizzare i giovani gli uni contro gli altri facendo credere loro che l’importante sia arrivare primi. Forse bisogna distinguere fra l’ansia di primeggiare e la responsabilità di dare sempre il massimo: c’è differenza. Ed è questa differenza che permette di vedere con occhi nuovi anche persone fisicamente, psicologicamente o culturalmente molto differenti. C’è ancora molto bisogno di acuire lo sguardo sulle motivazioni rispetto all’aspetto fisico, sulla volontà rispetto alle menomazioni anche psichiche, sulle sensibilità e le capacità di relazionarsi con umanità a fronte delle performance tecnico pratiche. C’è bisogno di apprendere questo sguardo vergine dai bambini che non vedono come anormale un ragazzo con la sindrome di Down o che di un compagno di asilo africano non segnalano come prima caratteristica il diverso colore della pelle. Il dono di Madre Teresa (San Paolo 2016) uscito a ridosso della canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta che per tutta la vita nei più poveri dei poveri ha sempre e solo visto delle persone, senza preoccuparsi di quanto fossero diverse da quelle che non avevano bisogno, è la storia vera di un ragazzo disabile che la collega Marina Ricci, inviata a Calcutta a documentare la malattia e la morte della “Matita di Dio” portò nella sua famiglia a Roma, adottandolo nonostante le più infauste previsioni sulle sue aspettative di vita. Il dono che la vita di Govindo è stata per chi l’ha accolto è l’ennesima non facile conferma che “da vicino nessuno è normale” e l’essenziale, spesso invisibile agli occhi, passa anche attraverso le nostre anomale ed irripetibili fragilità.

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