Promettere, promettere, promettere: questo è il verbo più usato dai politici di tutti i partiti in questa aspra campagna elettorale per l’elezione dei componenti il Parlamento che terminerà il prossimo 4 marzo quando i cittadini esprimeranno il proprio voto. L’elenco delle promesse in campo economico, come ha ricordato il direttore di questo settimanale nel fondo della scorsa settimana, è davvero impressionante. Più di un economista ha fatto i conti di quanto tutto questo costerebbe alle pubbliche finanze: la stima più prudente è di 220 miliardi; quella più realistica di 250 miliardi. Per fare un raffronto basti dire che la legge Finanziaria 2018, che qualcuno aveva definito “pesante”, è pari a 28 miliardi. Nessuno si è posto il problema di come e dove reperire le risorse. Nessuno in un momento elettorale vuole proporre un aumento della tassazione che dovrebbe coprire le maggiori uscite. Anzi tutti si sono affrettati ad affermare l’impegno ad abbassare la pressione fiscale che effettivamente risulta essere tra le più alte in Europa. Dunque l’unica via – non potendo stampare moneta – è quella di aumentare la spesa pubblica sforando il famoso rapporto del 3% tra deficit e Pil previsto dai trattati dell’Unione Europea, mettendo così in forse la discesa dell’altro decisivo rapporto, vale a dire dello stock del debito sul Pil (pari al 132,5%, tra i più alti al mondo). Su questi obiettivi di discesa e di rientro nelle regole si gioca la credibilità dell’Italia nell’Unione Europea. Aumentare il debito – che significa scaricare sulle future generazioni un macigno sempre più pesante – è purtroppo una consolidata prassi della classe politica. Alcuni dati danno la misura di questa drammatica esplosione: nel 1981 il debito pubblico era pari a 142,2 miliardi; nel 1997 era salito a 1.239,8 miliardi; nel 2005 a 1.518,6; nel 2013 a 2.070 miliardi per raggiungere oggi i 2.275 miliardi. Tale dinamica non ha purtroppo portato in Italia ad un correlativo rafforzamento della crescita. Il costo è stato dunque più alto dei benefici sperati. Mentre si ricostituisce l’asse franco-tedesco, che sta ridisegnando le regole future dell’Europa, il nostro Paese sembra guardare altrove. Non a caso il preoccupato ministro dell’economia Padoan ha ribadito che il consolidamento e l’estensione della ripresa in atto devono accompagnarsi alla riduzione della spesa e all’attuazione delle riforme che aumentano l’efficienza e la competitività del sistema-Paese. Il maggior reddito che ne potrà derivare consentirà, con gradualità, di ridurre le tasse sulle imprese e sulle famiglie innestando un volano di crescita permanente. Gli ha fatto eco il presidente del Consiglio Gentiloni sottolineando come tali promesse potrebbero annullare i progressi fin qui raggiunti. «Non è questo – ha detto – il tempo delle cicale». Dal canto suo Mario Monti ha scritto che tutte le misure proposte “comportano effetti negativi sul bilancio pubblico e rischiano di rendere impossibile o precaria la permanenza dell’Italia nell’euro”. Carlo Cottarelli del Fondo monetario internazionale ha aggiunto che se si vuole rimanere agganciati all’Unione le misure di politica economica devono essere finanziate “da un taglio della spesa, non da un aumento del deficit pubblico e del debito”. A meno che i nostri politici dimostrino che stiamo vivendo nel “Paese dei Balocchi” di collodiana memoria. Ma tale paese esiste e Pinocchio sarebbe credibile?