La legalizzazione non libera le prostitute dallo sfruttamento

La Germania e i Paesi Bassi vantano il triste primato di Stati in cui il numero delle vittime della tratta è maggiore

April 19, 2015

| DI Emanuela Vinai

Davvero legalizzare la prostituzione è la soluzione più ovvia per risolvere il problema e combattere lo sfruttamento? Le proposte che periodicamente tornano sul tema, più per affollare la scena mediatica che per superare il livello demagogico, tendono a propagandare la sicurezza delle persone coinvolte, la gestibilità di situazioni borderline, le nuove e maggiori entrate, la regolamentazione del settore e soprattutto la libera scelta delle donne. Visto che ogni due per tre si invoca a modello l’Europa, è utile controllare se l’erba dei giardini vicini è così verde come ce la vogliono far vedere da quaggiù. Ebbene, a giudicare da quello che accade in Germania gli unici che sorridono sono i clienti e le casse dello Stato: le donne continuano ad essere umiliate, sfruttate, mercificate. Il reportage del Daily Telegraph riportato sulla rivista Internazionale è sconvolgente. Non per l’argomento trattato in sé ma per il lancinante spaccato di realtà di quello che è a tutti gli effetti un mercato legale di esseri umani.
La Germania ha legalizzato la prostituzione nel 2002 e da quel momento le “case chiuse” sono aumentate esponenzialmente generando un giro d’affari abnorme. Nei primi due anni l’industria della prostituzione è riuscita a raggiungere lo stupefacente fatturato di sei miliardi di euro, per arrivare ai 15 di oggi. Praticamente la metà di una manovra finanziaria. La leva economica è un argomento così stringente, ricorda l’articolo, che quando nel 2013 la Cancelliera Angela Merkel ha provato a sollevare il problema, ha dovuto desistere, sconfitta dall’entità del dibattito. Però qui non è solo questione di soldi, si parla di persone, di donne spesso giovanissime che, salvo rarissimi casi, sono tutt’altro che libere nel dover praticare quello che con poca fantasia e molto cinismo è derubricato a “mestiere più antico del mondo”.
L’idea alla base della legge di legalizzazione tedesca, sostenuta e votata dal governo Shröeder, era di rendere la prostituzione un’attività come le altre, con tutte le garanzie del caso: contratto, assicurazione, tutele salariali, pensione, servizi sociali. Come se fare la prostituta, l’architetto o l’impiegata potessero essere opzioni ugualmente valutabili da una donna. Tredici anni dopo, pur in assenza di statistiche affidabili, è evidente che qualcosa non ha funzionato. Prendendo come base i dati dell’associazione berlinese Hydra, che offre servizi di consulenza alle prostitute, su circa 400mila lavoratrici del sesso presenti nel Paese, solo 44 risultano iscritte alla previdenza sociale. E la ragione è abbastanza ovvia: chi vorrebbe una simile carriera nel suo curriculum? Spesso le famiglie non hanno idea della “professione” svolta dalle proprie figlie, o madri, e la bugia che ci si racconta più spesso è sempre la stessa: «Tanto smetterò presto». Invece le settimane diventano mesi, poi anni, avvolte nelle spire di un sistema che non lascia scampo e dove il miraggio dei soldi “facili” si scontra con la durezza di una realtà che annienta, umilia, annichilisce. Le storie narrate rivelano lo sfruttamento dietro l’apparenza dell’autonomia. E se c’è sfruttamento c’è qualcuno che si arricchisce. Di fatto, nel 2002 Berlino ha approvato una delle leggi più liberali del mondo nel settore, vagheggiando manager al posto degli aguzzini. Invece, lungi dal rendere le donne più libere e più sicure, il contesto favorevole ha attirato i trafficanti, pronti a soddisfare le richieste di migliaia di turisti di questo discount del sesso. E così la Germania contende ai Paesi Bassi il poco invidiabile primato di essere ai primi posti nella classifica dei paesi europei in cui il numero delle vittime della tratta è maggiore. Eppure nel febbraio 2014 il Parlamento di Strasburgo ha approvato una risoluzione che chiede di punire chi acquista servizi sessuali, dando seguito alla direttiva che impone agli Stati di “ridurre la domanda” che alimenta il traffico di esseri umani. Se le modalità di intervento ci sono, si può anche fare lo sforzo di usarle. Ce lo chiede l’Europa, stavolta a titolo di favore.
* Agenzia Sir

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