In un precedente “approfondimento” si sono riportati, per l’Italia e per i principali Paesi industrializzati, i tassi di crescita del pil nel 2015 e le previsioni per il 2016. Tali dati mostrano che il nostro Paese – confermando una realtà di lungo periodo – cresce meno dei principali competitori europei. Sulle molteplici ragioni, tra gli economisti, c’è sostanziale concordanza.
La nostra è per tanti aspetti ancora una economia “protetta”. Si pensi in particolare al settore pubblico. I mercati risultano frammentati e permangono notevoli barriere all’entrata e all’uscita. Occorre dunque che il Governo prosegua nella meritoria politica delle riforme strutturali in modo da “disboscare” la foresta pietrificata e far circolare il vento forte della concorrenza e della competizione. Quanto fatto con il Jobs Act nel campo del lavoro va esteso a tanti altri settori in modo da favorire il dispiegamento delle migliori energie del Paese. C’è anche un eccesso di pressione fiscale sulle imprese e sul lavoro che frena gli investimenti e i consumi che sono due delle tre componenti fondamentali (la terza sono le esportazioni) della crescita.
Nella corsa rallentata dell’Italia vi sono poi ragioni di tipo industriale. Il primo problema è quello del calo della produttività che si è registrata in questi ultimi anni. Se sei meno efficiente dei competitori, non sei in grado di vendere all’estero i tuoi prodotti o lo puoi fare solo a prezzi più alti ponendoti però fuori mercato. Come noto l’efficienza produttiva è determinata da vari fattori: l’organizzazione aziendale, il livello e la qualità della tecnologia presenti, la capacità di innovazione, la flessibilità. Tutte componenti che trovano fondamento nei forti investimenti dello Stato nel campo della ricerca pura ed applicata, e nel mondo dell’istruzione. Va peraltro detto che sono i grandi Paesi industriali ad invidiarci il nostro sistema di formazione.
E qui si pone un altro nodo che frena e frenerà ancor di più in futuro lo sviluppo del Paese. L’Italia, con notevoli sforzi economici, prepara ogni anno migliaia di giovani ingegneri, medici, fisici, chimici, agronomi che dovrebbero poi trovare occupazione mettendo al servizio del Paese quanto acquisito nelle aule. Assistiamo invece ad un esodo sempre più consistente di “cervelli” che vanno all’estero per trovare un futuro di soddisfazione professionale ed economica. L’impoverimento che ne deriva per il Paese è certamente devastante.
Un tale fenomeno fa pensare che ancor oggi da noi non vi siano meccanismi trasparenti e pubblici di selezione della classe dirigente basati sulle competenze e sui meriti. Tutto questo richiede da parte del Governo, delle forze politiche, delle rappresentanze imprenditoriali e dei lavoratori, di quanti vogliono dare un futuro alle nuove generazioni un aumento degli sforzi per fare insieme e per fare sempre di più. Un impegno corale e straordinario che porti l’Italia, a pieno titolo, in Europa.