Il Fatto di Bruno Fasani
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Quando il pop melodico rende onore alla mafia

Del verbo cantare, finora conoscevo tre, quattro significati. Quello più popolare che, dai fasti di Sanremo e Castrocaro, e giù giù fino alle allegre brigate festaiole, ci consegna il piacere di condividere i virtuosismi dell’ugula e più spesso la gioia dello stare insieme, fatto anche di stonature ma di tanta complicità...

Parole chiave: Il Fatto (415), Bruno Fasani (323), Mafia (8)

Del verbo cantare, finora conoscevo tre, quattro significati. Quello più popolare che, dai fasti di Sanremo e Castrocaro, e giù giù fino alle allegre brigate festaiole, ci consegna il piacere di condividere i virtuosismi dell’ugula e più spesso la gioia dello stare insieme, fatto anche di stonature ma di tanta complicità.
Se poi volessimo darci una patina di intellettualità, cantare ci porterebbe ai versi poetici che sanno dirci parole che l’uomo qualunque non sa dire. “Cantami o diva del Pelìde Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei…”, così Omero invocava la Musa della poesia, nientemeno che una dea, perché gli raccontasse le vicende da trasporre nelle pagine dell’Iliade.
Dovendo scendere dall’Olimpo, una terza interpretazione punta alle sponde dell’umoralità. Gliele ho cantate per bene! Quante volte la risolutezza di questo genere canoro ci ha consentito di svuotare le scarpe dai famosi sassolini.
Se poi indagassimo su un quarto significato, far cantare qualcuno è lo stesso che ottenere una confessione, prima che l’avvocato difensore suggerisca la facoltà di non rispondere.
Quello che ci mancava nel repertorio ce l’ha consegnato una giovane cantante palermitana, esibendosi sulla pubblica piazza con un testo inedito inneggiante allo “zio” Franco. Che poi di parentela neppure l’ombra. Semplicemente un brano dedicato a uno storico esponente della famiglia mafiosa degli Inzerillo, un omaggio alla memoria del boss del clan di Passo di Rignano, portato via da un tumore tre anni fa e condannato nel 2008 a dieci anni di carcere.
La storia della famiglia Inzerillo è una delle storie più spietate della mafia siciliana. Soprattutto quando la scalata dei Corleonesi, guidati da Totò Riina alla fine degli anni ’70, li vide, da acerrimi nemici, pagare un tributo altissimo di vite. Poi il trasferimento in America, a far danno anche da quelle parti, e il rientro verso il 2000 per riprendersi la scena e il tintinnio degli affari.
Alla domanda di un giornalista sul perché la cantante non avesse dedicato una canzone a Falcone e Borsellino, la risposta è stata quanto mai significativa. Prima di tutto “zio” Franco era tanto caro, in secondo luogo spetta ai presentatori delle serate ricordare quelle figure, non tanto ai cantanti che si esibiscono. Dichiarazioni che impietriscono, facendo eco a quelle di certo Leonardo Zappalà, in arte Scarface, che durante un reality su Rai 2, dopo aver visto un filmato sui due martiri, se l’era cavata dicendo che quando si fanno certi lavori si sa a quali conseguenze si va incontro. Della serie: se volevano restare in vita, lasciassero in pace la mafia.
Si parla spesso di come estirpare la mafia in Sicilia. E la risposta è sempre identica. Informare, informare, informare e coinvolgere i giovani, che sono l’ossatura che darà corpo al domani. Una condizione, senza la quale tutto rischia di perpetuare le logiche del passato e del presente. Ma fintanto che nel Meridione si continuerà con gli inchini, nel nome di Dio e della Madonna, omaggiando i boss di turno e fintanto che giovani artisti continueranno a inneggiare allo zio Franco di turno, più che la mafia, a morire è la speranza.

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